Riciclaggio, ricettazione, accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, furto e violazione della legge sul diritto d’autore. Questi sono i reati di cui dovranno rispondere le 580 mila persone che hanno scaricato dai canali pirati Telegram migliaia di riviste, giornali e libri.
L’inchiesta, coordinata dalla Procura di Bari, è stata avviata dopo la denuncia della Federazione Italiana Editori Giornali (Fieg) sulla pirateria digitale presentata il 10 aprile all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom). La Procura ha ordinato la chiusura di 19 canali Telegram e sono in corso le indagini per identificare le persone e le società coinvolte.
Per il commissario dell’Agcom Mario Morcellini «la tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazioni elettroniche rappresenta uno dei più importanti risultati dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e non sarebbe stato possibile senza la collaborazione con Fieg». Il rapporto con Telegram, invece, «è stato più complesso, perché non ha sede in Italia e quindi non è soggetto alla regolamentazione di Agcom. Nonostante ciò abbiamo riscontrato un comportamento collaborativo finalizzato alla rimozione di gran parte dei contenuti illegali».
Ma chiudere una ventina di canali non significa aver risolto il problema: all’oscuramento di un contenitore dominante segue la creazione di altri, in cui gli utenti iscritti vengono reindirizzati con un semplice click. Si chiama effetto “Hydra”, perché ‘tagliando la testa’ a una lista se ne generano di più piccole che raccolgono l’utenza smarrita, creando una rete sempre più forte e radicata.
«Dopo alcuni giorni i profili che diffondevano contenuti editoriali pirata si sono moltiplicati, facendo emergere le reali criticità. Il vero problema, infatti, consiste nella carenza di potere di Agcom nei confronti dei soggetti che non sono ubicati nel nostro paese». La competenza territoriale delle autorità giudiziarie è un ostacolo alla individuazione dei soggetti che fanno un uso fraudolento di Telegram, come nel caso dei canali in cui circola materiale pedopornografico, ed è necessario migliorare la collaborazione tra paesi.
Intanto, dal confronto tra Agcom e Telegram è emerso l’accordo sulla chiusura dei singoli gruppi, ma non è consentito ad Agcom di ordinare la rimozione selettiva dei soli contenuti illeciti diffusi attraverso Telegram, i pdf di giornali e riviste. Un tentativo di sradicare il fenomeno alla radice è quello che chiedeva la Fieg, il blocco dell’intera piattaforma di messaggistica. L’Agcom ne avrebbe il potere facendo appello diretto ai provider italiani affinché neghino l’accesso. Ma un tale provvedimento risulta sproporzionato perché colpisce anche tanti altri canali che operano nel pieno della legalità e come ricorda Morcellini «la quantità di contenuti pirata su Telegram è davvero minima in confronto ai dati che in tale piattaforma vengono prodotti».
Il danno all’editoria è di 670mila euro al giorno e negli ultimi due anni, gli iscritti ai canali dedicati alla distribuzione illecita di quotidiani e periodici sono triplicati, dai 180mila rilevati a fine 2018 ai quasi 600mila di oggi, in aumento nel periodo di diffusione del virus Covid-19, come ricorda il presidente della Fieg, Andrea Riffeser Monti, in una dichiarazione a La Stampa.
Mentre la Guardia di Finanza effettuava gli oscuramenti, in una delle pagine dedite allo ‘spaccio’ illegale di quotidiani è apparso un messaggio. Ne riportiamo alcuni passaggi salienti.
«Vogliamo scrivervi questo post per raccontarvi la realtà. Tutte le maggiori fonti giornalistiche oggi riportano la notizia che i canali Telegram di Edicola sono stati chiusi… in realtà non è vero. Alcuni hanno cambiato format, altri sono stati “bloccati” nel loro canale di redirect. […] Molti editori dovrebbero ringraziarci, abbiamo dato visibilità a 90mila utenti, in un istante, a riviste che avevano sì e no un centinaio di lettori. (D’altronde più di una rivista ci ha addirittura richiesto di pubblicizzare i loro numeri qui sul nostro canale per farsi conoscere!) Cosa si fa invece di ingegnarsi a come fare a rendere riviste e giornali accessibili a tutti? È così difficile creare un servizio freemium, che consente di accedere a più giornali e riviste insieme ad un costo ridotto? È nato Netflix, Spotify, Disney Plus, Prime Video e cento altre piattaforme così. Film che per essere girati hanno bisogno di budget giganteschi sono disponibili su una piattaforma accessibile a pochi euro al mese e lo stesso non si può fare per un libro o una rivista? È così difficile prendere spunto da questi servizi che hanno ridotto al minimo la pirateria di musica e film?»
Abbiamo chiesto a Claudio Giua, Direttore sviluppo e innovazione editoriale gruppo GEDI, di rispondere a queste domande, incuriositi dalla possibilità che ci fosse del vero nelle rivendicazioni dei gestori della Lista.
«Certo che c’è del vero. È necessario che si costituiscano forme di distribuzione dei contenuti secondo logiche on demand e in modalità freemium. Gli editori dovrebbero fare fronte unico, studiare forme di controllo della distribuzione (blockchain, ad esempio). È tecnologicamente fattibile e se ancora non è stato fatto è un problema di abitudini dei giornali: fino a qualche decennio fa il settore non temeva la concorrenza, perché c’erano pochi competitors. Ancora oggi non sono abituati a ragionare come sistema, perché non hanno mai avuto bisogno di farlo».
Il fenomeno della pirateria informatica è una storia antica quanto lo sviluppo del web, una sfida che ha coinvolto l’industria musicale, cinematografica, quella dei software, dei videogame fino a porsi come partita cruciale nella risoluzione della crisi dell’editoria giornalistica.
In effetti, ai tempi di Napster e Emule, programmi di file sharing peer to peer che sfruttavano la ricomposizione finale e offrivano musica gratuitamente, il mercato dell’industria discografica ha affrontato un problema simile, come del resto la cinematografia. Poi, la nascita di piattaforme come Spotify e Netflix ha scompaginato le regole e favorito la riconversione degli utenti legali disposti a pagare per servizi legati a nuovi modelli economici. A riprova dell’efficacia del fenomeno, una ricerca pubblicata nel 2015 dal Joint Research Centre della Commissione Europea, “Streaming Reaches Flood Stage: Does Spotify Stimulate or Depress Music Sales?”, ha dimostrato come il servizio offerto da Spotify, abbia contributo – e tutt’ora contribuisca – all’abbattimento del fenomeno della pirateria.
Anche Mario Morcellini è d’accordo: «Telegram ha messo in luce un dato che credo sia di estrema rilevanza. Sebbene il digitale e i diversi social network ci hanno abilitati ad un consumo direi sterminato di fonti, sentiamo comunque la necessità di arricchire la nostra sete di informazione attraverso veri e propri giornalisti». L’Agcom nel 2018 pubblicava il report sui flussi di informazione certificata e i flussi di fake-news. «Mentre queste ultime hanno una propagazione massima che si limita alle 24 ore, le prime restano nel sistema per molto più tempo. La ragione è proprio la necessità che ha l’utente di approfondire e certificare le notizie». In quest’ultimo periodo poi, come accennato sopra, l’esigenza di informazione certificata cresce.
Per Morcellini è difficile dire se sarà percorribile la strada di uno Spotify dell’informazione, «quello che però posso dire con certezza è che occorre trasmettere il valore di un prodotto editoriale».
Gli editori devono organizzarsi prima che lo faccia qualcun altro. Come sottolinea Claudio Giua «oggi i concorrenti veri sono piattaforme di diffusione che operano come le liste Telegram, ma senza essere illegali, pensiamo a Google News. Gli editori potrebbero superare questa fase ponendosi come unico interlocutore: tutte le testate dovrebbero mettersi a sistema come distributori di contenuti scaricabili. Poi, i ricavi vengono ripartiti tra le parti secondo logiche di gradimento e di visualizzazione, come avviene per Spotify. Se ancora in Italia tutto ciò non è avvenuto è per un problema culturale».