«Non ho visto Game of Thrones, per un’allergia ai draghi che ho, una questione dermatologica proprio, mi vengono le bolle. Ho provato eh, ma proprio non mi prende». Una frase che potrebbe stare benissimo in una delle sue poesie: il commissario Magrelli, oltre all’idiosincrasia per i clacson delle auto, coltiva anche quella per i draghi.
Durante la quarantena, all’epoca delle serie tv e del cinema on demand, che tipo di serie televisive guarda uno scrittore e poeta italiano finalista al Premio Campiello? Lo abbiamo chiesto direttamente a Valerio Magrelli, scrittore, traduttore e uno dei più apprezzati poeti contemporanei italiani, insignito nel 2002 dall’Accademia Nazionale dei Lincei del Premio Feltrinelli per la poesia italiana. Il suo ultimo lavoro, pubblicato da Einaudi, è la raccolta: Le cavie. Poesie 1980-2018.
«Quando c’erano le cene con gli amici andavo a cena fuori, ora preferisco vedere le serie tv piuttosto che passare da una canale all’altro per ore», ci dice nel corso della nostra intervista.
È dolce naufragare nel mare delle serie tv, così com’è dolce emozionarsi davanti al finale di una serie che magari ci ha tenuto compagnia per anni, il pomeriggio dopo pranzo poco prima di mettersi a fare i compiti. Così com’è dolce salutare per l’ultima volta i personaggi delle nostre serie televisive preferite, attori magari sconosciuti che dopo il successo della serie sarebbero rimasti per sempre nel cuore degli spettatori, come nel caso di Friends. E poi ci sono i compagni che ci hanno lasciato troppo presto: i personaggi di The OA e Super 8…caduti sotto la scure di Netflix.
Tutto questo in un continuo scambio e confronto con i nostri amici e parenti, abbuffate pantagrueliche di trame, storie, personaggi, in un bisogno viscerale di emozioni che ci facciano dimenticare per un secondo la realtà che ci circonda.
Alcune serie tv di oggi hanno budget stratosferici, usati per pagare l’uso massiccio di CGI (computer grafica usata per generare immagini 3D) e comparse, per mettere in scena battaglie che neanche al fosso di Helm, trame complicate, un approfondimento psicologico dei personaggi che fa a gara con quello dei romanzi e scene girate in set allestiti in giro per il mondo. Le serie sono diventate parte essenziale dell’industria dell’intrattenimento e stanno cambiando anche quello che ci aspettiamo dal cinema.
«Io partirei da questa immagine: la nebulosa. Ho scoperto le serie televisive piuttosto tardi perché non mi piaceva l’idea di restare agganciato troppo a lungo, proprio perché questa idea della sconfinatezza mi infastidiva. Quello che io ho scoperto in ritardo era appunto questa straordinaria flessibilità dell’offerta. Per cui la prima cosa che voglio sottolineare- e che secondo me rappresenta anche il segreto del successo di questa formula- è la variegata ricchezza che offre, impressionante. Ecco io ho visto per esempio The Big Bang Theory o Stranger Things, o anche Friends. E mi ricordo che dicevo ai miei figli che prima di fare i compiti dovevano stare un’ora davanti a queste serie tv perché sono un esercizio d’intelligenza allo stato puro. Inserisco in questo computo anche South Park o I Simpson…Sentire una puntata di The Big Bang Theory è come fare la punta alla matita del pensiero perché c’è un lavoro di scrittura formidabile, paragonabile per certi versi alla grande commedia all’italiana».
«Sempre parlando di questi “dialoghi in punta di fioretto”: l’intelligenza di Fleabag, oppure- lo sto vedendo da poco- Il metodo Kominsky: due vecchi amici che parlano della vita quotidiana, del sesso, degli amori, ma da vecchi. Quindi da un lato c’è questa possibilità della commedia leggera, brillante e sfavillante. Poi abbiamo le serie storiche, che io adoro. Faccio due nomi: una è Taboo ambientata nella Londra dell’800 dickensiana: una serie cupa, formidabile. E un’altra è ambientata a fine Ottocento su una nave che cerca di fare il giro del Polo Nord ma rimane bloccata nei ghiacci: The Terror. E poi i polizieschi e quelli geopolitici, ora sto vedendo per esempio Fauda. Ripeto, è una nebulosa, io ci sono entrato tardi ma quello che mi è veramente piaciuto è questa immensità espressiva che riflette esattamente quello che ci dà il cinema, il quale a sua volta riflette quello che ci dà il romanzo».
Parlando delle sue serie preferite Magrelli inserisce tra di esse True Detective: una storia intrisa di nichilismo che narra delle indagini di due detective sulle tracce di un serial killer.
«Qui c’è un’ambientazione veramente intelligentissima, in quel sud degli Stati Uniti, in Louisiana, poi con la musica di Leonard Cohen e l’idea del detective filosofo…».
La nota divertente è che Magrelli stesso, laureato in Storia della filosofia, si è calato nei panni del commissario in una delle sue opere più recenti: Il commissario Magrelli, un testo divertitamente polemico contro il genere giallo e che inanella anche versi di poesia civile, toccando tra i tanti temi: il precariato, il caso Cucchi, Diaz e Regeni, il femminicidio, la giustizia italiana. «Lui non è interessato al serial killer,/bensì alle povere prede, serial killed», recita in una delle sue poesie il commissario Magrelli.
E poi continua a elencare le sue serie preferite: Chernobyl, una miniserie televisiva che in cinque episodi ricostruisce il grave incidente nucleare avvenuto nell’omonima città dell’Ucraina, avvenuto il 26 aprile del 1986. Ed è l’unica serie che Magrelli ha visto due volte.
«Non mi è mai successo con nessun’altra, forse dovrei metterla al primo posto. Intanto attori formidabili, poi quello che mi è piaciuto di Chernobyl è la fotografia. La ricostruzione di questi squallidissimi anni ’80in Unione Sovietica. E poi l’investimento…dei mezzi impressionanti! Quella centrale viene descritta davvero in maniera allucinata. Formidabile, formidabile. Forse la definirei una faction, perché è una fiction basata su una storia vera, anche se poi ho saputo ci sono state proteste circa la ricostruzione. La metto al primo posto».
«Poi sono obbligato a citare Black Mirror, anche se ne ho viste veramente poche [di puntate], però l’idea è straordinaria. E anche qui l’investimento è impressionante perché ogni puntata sembra un film».
«E di italiani?» chiediamo.
«Di italiani c’è Boris! Quella devo dire: un gioiellino».
«La mettiamo tra le prime cinque o no?».
«Ma sì…» risponde.
«Mi veniva in mente un’altra che mi è piaciuta tanto…Big Little Lies. Quella tra l’altro aveva un lavoro sulle musiche straordinario, perché ogni personaggio era legato a una musica. Un po’ il procedimento wagneriano del Leitmotiv: l’oggetto o il personaggio che ha un suo motivo, una sua melodia. Anche lì ho visto solo la prima stagione però».
«Sono forme di moderna intelligenza che prima non esisteva e ora stanno prendendo spazio e mi piacciono proprio per questo».
L’uso del Leitmotiv non è inusuale nelle serie tv, basti pensare al Trono di Spade dove, le due casate più importanti gli orgogliosi Stark e i dissoluti Lannister (reminiscenza degli York e Lancaster della Guerra delle due rose) così come tutte le altre casate di Westeros, hanno un loro tema musicale. Essi sono rispettivamente The North Remembers per gli Stark e The Rains of Castamere per i Lannister, entrambe del compositore dell’intera colonna sonora della serie: Ramin Djawadi. Il quale ha firmato anche quella di un’altra famosa serie targata HBO: Westworld, molto apprezzata anche dallo stesso Magrelli, una serie di fantascienza ambientata nel 2050 in un parco divertimenti a tema Far-West, tecnologicamente avanzato e popolato da “residenti” androidi.
Tra i titoli di testa delle serie tv ricordati per la bellezza delle musiche ci sono dunque quelli di: Westworld, Il Trono di Spade, così come quelli di Narcos, accompagnati dalla musica di Rodrigo Amarante, o quelli di Stranger Things. Melodie che invitano ad essere ascoltate fino alla fine senza premere quel “salta intro” proposto dalle piattaforme di streaming.
Il problema- dice Magrelli- è che uno potrebbe veramente vedersi quattro o cinque episodi di fila: «C’era un film di Marco Ferreri, La grande bouffe, in cui i protagonisti decidono di suicidarsi mangiando. Io credo che quando salti il limite c’è sempre un pericolo mentale più che fisico, quindi sto attento, ma è qualcosa che stordisce insomma e dà assuefazione. Io con True Detective ho rischiato l’abbuffata».
E allora chiediamo al poeta: «Secondo lei perché c’è questo rischio?».
«Un mio amico ha avuto un’idea bellissima: secondo lui il cinema è l’equivalente del nirvana Orientale. Cioè noi in Occidente abbiamo il cinema che equivale a un narcotico, è l’unico modo per fermare il cervello. Quando c’è il cinema- ma lo stesso vale per la letteratura- non ci siamo più noi. Ma il cinema è una lettura “dopata”, ovviamente. La rappresentazione ci consente di assentarci da noi e questo spesso è il regalo più bello».