Condannata per diffamazione online da un tribunale di Manila. Maria Ressa, giornalista e dissidente filippina tra le più critiche verso il presidente Rodrigo Duterte e la sua sanguinosa campagna contro i trafficanti di droga, è stata condannata insieme a un collega del sito Rappler, Reynaldo Santos Jr. I due sono stati liberati su cauzione in attesa del processo d’appello, ma rischiano fino a sei anni di carcere. Si tratta dell’ennesimo verdetto contro la libertà di stampa nelle Filippine – al 136° posto su 180 nella classifica di Reporter senza Frontiere – ma la condanna di Ressa arriva in un periodo difficile un po’ in tutto il mondo per la libera stampa. Con la pandemia di coronavirus che ha in qualche misura aggravato la situazione.
Ressa ha 56 anni ed è una delle giornaliste più note e autorevoli delle Filippine. Per vent’anni ha lavorato come reporter investigativa e corrispondente all’estero per la tv americana CNN. Ha poi diretto la divisione dedicata alle notizie di ABS-CBN, il principale canale televisivo delle Filippine, e nel 2012 ha partecipato alla fondazione del social network Rappler, che combina giornalismo professionale e modelli partecipativi. Nel 2018 la rivista americana Time l’aveva nominata persona dell’anno con un gruppo di giornalisti minacciati per il loro lavoro.
Ressa è stata arrestata più volte per le sue inchieste, ma finora non era mai stata condannata. Nel 2019 era stata fermata e rilasciata su cauzione con l’accusa di diffamazione online dopo un’inchiesta giornalistica in cui Rappler aveva raccontato il coinvolgimento di un imprenditore filippino, Wilfredo Keng, in un traffico di droga e di esseri umani. È questo il caso che le è costato la condanna di ieri. Sabato scorso Ressa aveva scherzato durante un’intervista su ANC: «Se perdiamo la causa sarà perché abbiamo corretto un errore di battitura». Il pezzo su Keng era infatti stato ripubblicato nel 2014, due anni dopo la prima pubblicazione, con una piccola correzione. Nel frattempo era stata però emanata una norma che punisce i crimini informatici e che è risultata fondamentale per la condanna.
Nel verdetto il giudice ha scritto che la giornalista – difesa da legali filippini e stranieri, tra cui Amal Clooney – non aveva portato prove delle sue accuse contro Keng, aggiungendo che la libertà di stampa «non può essere usata come una protezione» contro il reato di diffamazione. Non si è fatta attendere la risposta della stessa Ressa, che ha parlato con i cronisti presenti fuori dall’aula giudiziaria: «Questa sentenza non riguarda solo Rappler, riguarda ognuno di noi. La libertà di stampa è il fondamento di ogni singolo diritto che avete come cittadini filippini».
La condanna di Maria Ressa ha subito scatenato la reazione delle organizzazioni dei giornalisti e dei diritti umani. «È l’ennesimo abuso di Duterte, che manipola le leggi per perseguitare voci critiche e rispettate dai media – ha detto Phil Robertson, a capo di Human Rights Watch Asia – Il caso Rappler si ripercuoterà non solo sulle Filippine ma in molti paesi». Da tempo a Manila si respira un clima intimidatorio nei confronti della stampa («Solo perché sei un giornalista, non vuol dire che non puoi essere assassinato», ripete spesso Duterte), tanto che l’editore dell’influente Inquirer si è visto costretto a vendere il giornale a un imprenditore vicino al presidente, mentre ABS-CBN ha ricevuto un ordine di chiusura dopo il mancato rinnovo della licenza commerciale.
La fondatrice di Rappler ha spesso denunciato l’uso dei social media come arma contro la libera informazione e le minacce di morte rivolte contro di lei e i suoi collaboratori. Il suo sito è stato perseguitato per diversi capi di imputazione, che vanno dall’evasione fiscale alla violazione della legge sulla composizione della proprietà dei media. Tutte accuse che Ressa respinge come tentativi di imbavagliare una voce libera. Il tema della legittimità del carcere per i giornalisti riconosciuti colpevoli di diffamazione è dibattuto in tutto il mondo, Italia inclusa: solo pochi giorni fa la Corte costituzionale ha rinviato di un anno la decisione sulla legittimità della legge in materia, per dare al Parlamento il tempo di «intervenire con una nuova disciplina».