«A sei anni ho ricevuto una sedia a rotelle. Prima camminavo con dei tutori e un piccolo deambulatore. Con la carrozzina sono diventata più autonoma. È servita a integrarmi nella società, a togliermi un po’di diversità. Farmi percorrere da sola il tragitto fino a scuola è stato regalarmi la libertà. Quando mi ci sono seduta, il primo pensiero è stato farla volare lontano, il più veloce possibile. Così è nato il sogno di essere atleta».
Nome: Francesca Porcellato. Segni particolari: campionessa. La quarantanovenne di Castelfranco Veneto, città del pittore Giorgione, in dieci edizioni dei Giochi paralimpici estivi e invernali ha conquistato 13 medaglie, cimentandosi in tre diverse discipline. Dall’atletica, primo amore, allo sci di fondo. Fino alla handbike. Una parabola che è iniziata a Seul 1988 e non si è ancora interrotta. Tokyo 2021 è il prossimo obiettivo della “rossa volante”.
«È un soprannome simpatico, che mi piace. A darmelo è stato Paolo Mutton, speaker ufficiale di numerose maratone. Mi vedeva tagliare il traguardo a velocità sostenuta, distrutta ma con il sorriso. Il colore dei miei capelli gli ha suggerito il resto».
Al telefono Francesca ci ha raccontato la sua vita. Dai successi sportivi al rapporto con la disabilità, a come si è trasformato nel tempo.
«Ho avuto un incidente all’età di 18 mesi, un camion mi ha investito nel viale di casa. Da quel momento ho perso l’uso delle gambe. Non ho un prima, nei miei ricordi esiste solo un dopo. Districarsi tra la mentalità chiusa delle persone e le barriere architettoniche non è stato facile. Negli anni Settanta la disabilità era ancora un tabù, la società non era preparata. Si veniva rinchiusi negli istituti e fuori non si era considerati. Persino le mie maestre elementari erano incapaci di gestire questa situazione. Si facevano mille scrupoli e mi abbassavano i voti, dicendo che avevo più tempo dei compagni per studiare, dato che non potevo giocare e correre come loro. Io mi infuriavo e mi ribellavo. Proprio come ora, ero vulcanica e inarrestabile. Per fortuna ho avuto una grande famiglia alle spalle, che mi ha sostenuto e insegnato a valorizzare le mie qualità, senza rimpiangere ciò che non potevo permettermi. Così ho imparato a raggiungere un obiettivo, a prescindere dalla strada per arrivarci. È stata una corsa a ostacoli impegnativa, che ho affrontato con feroce determinazione.
Oggi il mondo è cambiato. Ho avuto la fortuna di osservare quest’evoluzione, che riguarda anche lo sport. Ricordo quando siamo partiti per Seul. Sulla strada per l’aeroporto, vedendoci tutti in divisa ufficiale, le persone ci domandavano a quale santuario fossimo diretti. Ora siamo atleti conosciuti, le nostre prestazioni vengono seguite e apprezzate».
Per Francesca ogni Olimpiade ha un sapore, un ricordo preciso. «All’esordio, in Corea del Sud, ero colpita da qualunque particolare. Appena maggiorenne, vivevo in una dimensione di continuo stupore. Atene 2004 e Vancouver 2010 mi sono rimaste nel cuore per ragioni tecniche. In quelle edizioni ho realizzato le mie imprese più belle, che ancora oggi ripercorro con il pensiero: gli 800 metri nell’atletica leggera e lo sprint nello sci di fondo. In Grecia feci la gara perfetta, in una distanza che inseguivo da tempo e che mi era sempre sfuggita. Quell’argento vale una vittoria. In Canada, invece, c’era in ballo una scommessa impossibile. Da vice campionessa olimpica mi ero reinventata su una slitta. Era un po’ come passare dall’università all’asilo. Avevo dovuto imparare tutto da capo e dimenticare le sensazioni e gli automatismi dell’altra disciplina. A Torino 2006 ero arrivata penultima, ma in quattro anni ero riuscita a resettarmi, fino a raggiungere il titolo. La cosa più bella è ripensare a quel percorso, al costante lavoro mentale e fisico fatto ogni giorno».
Quando ci parla del suo eclettismo, la campionessa veneta smentisce un luogo comune. Nel suo caso non si tratta dell’eterna sfida con sé stessi, di un orizzonte sportivo stretto che spinge a cercare nuovi stimoli.
«Amavo l’atletica leggera. Non c’era ragione per metterla in disparte. Venivo invitata in tutto il mondo per disputare le maratone, il mio grande amore. Poi la Federazione mi ha chiesto di mettere gli sci. Non volevo essere scortese e rifiutare. Ho provato e mi sono appassionata. Sono fatta così, quando scopro una cosa che mi piace, divento curiosa e voglio conoscere ogni aspetto per migliorarmi. All’inizio neanche l’handbike mi stuzzicava. Si stava distesi, con una visibilità ridotta. Sono salita su questa “bici strana” solo per dare continuità agli allenamenti estivi. E me ne sono innamorata. Se ora qualcuno la chiamasse così, mi arrabbierei».
Dal tartan degli stadi, alla neve. E ora l’asfalto, dove sfreccia con il suo veicolo. In mezzo centinaia di competizioni e avversarie, con cui ha condiviso trionfi e sconfitte amare.
«Nell’atletica la mia principale rivale era l’inglese Tanni Grey-Thompson. In gara avevamo il coltello tra i denti e ce le davamo di santa ragione. Ma tutto iniziava allo sparo e finiva sulla linea del traguardo. Fuori eravamo e siamo tuttora grandi amiche. Lei era più forte di me e qualcuno mi suggeriva di non frequentarla, per non darle vantaggi. A me non importava. Ci siamo scambiate favori, segreti, siamo state di supporto l’una per l’altra in momenti difficili della nostra esistenza».
Una carriera sportiva che si intreccia con la vita privata. Chi la allena, infatti, è anche suo marito. «Dino è il mio valore aggiunto. È bello condividere la stessa passione, ti unisce e fortifica il rapporto. Spesso non serve parlare, basta un’occhiata. E poi c’è il vantaggio di impostare gli allenamenti in base alla nostra routine. Certo, a volte nascono tensioni, perché il lavoro lo portiamo a casa, ma siamo sempre riusciti a tenere i due ambiti separati».
Francesca ripercorre gli ultimi mesi. Sembra siano passati anni. La preparazione maniacale per l’Olimpiade di luglio, poi la pandemia di COVID-19, il distanziamento sociale e il rinvio di Tokyo all’anno successivo.
«Quando è iniziato il lockdown ero in ritiro alle Isole Canarie, come ogni inizio di stagione. Dopo il panico iniziale, ci siamo rimboccati le maniche, diventando piccoli MacGyver. Non avevamo molti attrezzi per la palestra, solo degli elastici e un piccolo rullo da allenamento, che ho modificato mettendoci sopra la mia bici. Per il resto ci siamo arrangiati con le cose a disposizione, ad esempio usando bottiglie dell’acqua come pesi. E ha funzionato. I test a cui mi sono sottoposta dopo esser tornata in Italia hanno confermato il buon lavoro di quei giorni».
La vita dell’atleta non è solo medaglie e podi. Dietro le quinte c’è una quotidianità fatta di sacrifici e fatica. Tutto viene impostato sul calendario delle competizioni, senza trascurare alcun dettaglio. L’amore per il proprio sport non basta. Perseveranza e concentrazione sono fondamentali per raggiungere gli obiettivi.
«Ogni mattina la sveglia suona presto. Una ricca colazione e poi 3-4 ore di allenamento. Il pomeriggio lo dedico alla fisioterapia e agli altri interessi. Mi piace leggere, cucinare, organizzare viaggi. Nel giorno settimanale di riposo non riesco mai a rilassarmi, devo occuparmi di tutto ciò che ho rimandato fino a quel momento. Ma vivo questi ritmi con serenità. Le rinunce più grandi? Pizza e gelato, vere e proprie spine nel fianco per il mio peso forma».
L’azzurro è il colore preferito. Ha dipinto la bici e la slitta. Ogni gara aggiunge un accessorio di quella tonalità. Pare che le porti bene. Fortuna che augura al collega Alex Zanardi, rimasto coinvolto in un incidente stradale in Toscana lo scorso 19 giugno. «Mi ha aiutato a trovare la giusta posizione in bici prima di Rio, perché avevo problemi di assetto. È un ottimo compagno di squadra. Rispettoso, attento, sempre pronto a darti un consiglio. Una bella persona, con cui discutere e confrontarsi. Spero che questa tragedia sia solo una parentesi. Forza Alex, faccio il tifo per te».