«Bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione della persona». Con queste parole la Corte Costituzionale, con l’ordinanza del 9 giugno scorso, ha rinviato di un anno la decisione sul carcere ai giornalisti accusati di diffamazione a mezzo stampa. Ora la palla passa al Parlamento che, come per il caso Cappato, ha fino ad un anno di tempo per eliminare la reclusione fino a tre anni prevista attualmente dal codice penale. La Consulta ritiene «inadeguato» il bilanciamento espresso dall’attuale legge, chiedendo al legislatore di ricorrere a sanzioni sì, ma che siano adeguate e soprattutto «non detentive». «In Italia la libertà di stampa c’è, non siamo di certo la Cina, ma la mole di querele contro i giornalisti è preoccupante. Si tratta di un meccanismo ben rodato che porta la stampa non solo ad assumere una serie di cautele per evitare conseguenze giudiziarie, ma anche ad autocensurarsi a volte», spiega Caterina Malavenda, da sempre schierata dalla parte dei giornalisti nelle aule di giustizia. Avvocatessa e pubblicista, assiste piccole e grandi testate come, Il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore e Rai, in processi penali per diffamazione e altri reati commessi a mezzo stampa.
E’ dal 1996 che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo invita gli Stati membri ad eliminare la reclusione dai loro ordinamenti. Con la sentenza Cumpana e Mazare c. Romania, la CEDU ha messo nero su bianco l’ «effetto dissuasivo» del carcere sul principio delle libertà di espressione dei giornalisti e quanto questo possa risultare «nocivo per la società nel suo complesso». Con questa sentenza i giudici di Strasburgo hanno evidenziato quel meccanismo di autocensura che si cela dietro la minaccia di reclusione, che – nel caso italiano – potrebbe arrivare fino a tre anni. Una ipotesi estrema, una pena quasi mai applicata, ma che, nel frattempo, rimane scolpita nell’articolo 595 del codice penale.
Nel frattempo al Senato è stato raggiunto l’accordo sulla proposta dell’ex magistrato Giacomo Caliendo che, se da una parte elimina il carcere, dall’altra aumenta le sanzioni fino ad un massimo di 50.000. L’attuale legge, invece, prevede una multa da 516 a 2.065 euro in alternativa al carcere, «che ad oggi è un’ipotesi molto remota», spiega Caterina Malavenda. Con la nuova legge, in caso di diffamazione, le sanzioni lieviterebbero, partendo da un minimo di 5.000 euro fino a un massimo di 10.000. Una somma quest’ultima che diventerebbe la base di partenza qualora la notizia venisse diffusa «con la consapevolezza della sua falsità». Un aggravante «molto difficile da accertare», spiega l’avvocatessa. «Il rischio è che il giudice finisca con lo stabilire che il giornalista non poteva non sapere della falsità», trasformando l’eccezione in regola e facendo lievitare la sanzione fino 50.000 euro: il tetto massimo indicato dalla legge in discussione.
Una toppa che rischia di essere peggio del buco per tutti quei giornalisti sottopagati e con contratti precari, o per chi scrive nella galassia delle piccole testate locali, le cui risorse economiche non permettono al giornalista di lavorare con le spalle coperte. Per chi querela, infatti, rimane la facoltà di portare in giudizio il singolo giornalista senza che il direttore o l’editore vengano coinvolti. «Questa norma permetterebbe di colpire il singolo giornalista favorendo il disinteresse nei suoi confronti dell’azienda editoriale che ha pubblicato l’informazione», scrive in una nota l’Ordine dei Giornalisti.
«Se sei un freelance pagato a pezzo, come ormai è frequente che accada, diventa difficile affrontare multe così alte». Il pericolo è che il giornalista decida di autocensurarsi preventivamente per evitare di dover pagare somme di denaro sproporzionate rispetto alla propria retribuzione. «Come si fa a sopportare il rischio di una sanzione elevata?», si chiede l’avvocatessa. Dunque, lo stesso «effetto dissuasivo» evidenziato dalla Corte di Strasburgo a proposito della reclusione potrebbe ripresentarsi con la legge Caliendo sotto forma di pesanti sanzioni economiche, che da una parte potrebbero indurre i giornalisti a prestare maggiore attenzione evitando la sciatteria ma, dall’altra, «metterebbero in capo al giornalista un rischio che, dal mio punto di vista, potrebbe essere addirittura peggio del carcere che quasi mai viene applicato».
Si pensi ai giornalisti d’inchiesta, autori di scandali che spesso scuotono le fondamenta del potere portandosi dietro una valanga di querele. E’ il caso di Emiliano Fittipaldi, firma di punta del settimanale L’Espresso, autore di numerose inchieste che hanno scosso il Vaticano e la politica italiana. «Sì, multe più elevate mi costringerebbero a stare più attento quando lavoro, ma penso ad altre categorie di giornalisti, come quelli che lavorano nelle testate locali, che fanno inchieste sul territorio: questa legge colpisce loro». E’ molto probabile dunque che un giornalista si trovi nella condizione di non poter pagare una sanzione che – stando al testo – nel migliore dei casi, arriverebbe a 5.000 euro. Qualora si palesasse questa ipotesi «la multa verrebbe convertita in libertà vigilata o in lavori di pubblica utilità – spiega l’avvocatessa – che comunque impegnerebbero la giornata del giornalista impedendogli di esercitare la sua professione o rendendo molto difficile farlo».
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