Dalla copertina ho capito che non era un libro da leggere prima di andare a dormire. Reclamava la luce del giorno e tutta l’attenzione del Lettore, con la sua iniziale maiuscola, così accattivante e ospitale.
La dedica, con parole retrò, mi aveva fatto intravvedere un linguaggio retorico e, di conseguenza, un’opera essenzialmente celebrativa.
Dunque…
Niente di tutto questo. Man mano che leggevo e guardavo, guardavo e leggevo, mi è venuta in mente “La piccola città” di Thornton Wilder, con i suoi tre atti nei quali viene descritta la semplice vita degli abitanti di una cittadina immaginaria e in cui viene data importanza ai semplici gesti e ai movimenti che caratterizzano la vita di tutti i giorni e i cambiamenti intercorsi con il passare del tempo. Tutte le vicende sono presentate e commentate dal personaggio del direttore di scena. Ma le analogie finiscono qui. Gerace è vera e circola nel sangue dei suoi figli ovunque essi si trovino, avvolgendoli in una rete invisibile, di seta preziosa, che tiene insieme passato presente e il futuro sognato. È un’innocua Circe, che li fa tornare, senza promesse se non quella di rimanere come viene ricordata. La luna sopra Gerace, nello struggente ricordo di Anna Larosa, mi ha fatto vedere sotto un’altra luce la giornalista nel cui salotto televisivo ogni politico desiderava essere ospitato, ma che non mi era simpatica. Oggi vorrei incontrarla e ascoltare da lei qualche “cuntu” della nonna.
Paolo Cinanni è il personaggio che ha catturato il mio cuore: sono figlia di un sindacalista, moglie di un sindacalista dei marittimi della CGIL e io stessa sindacalista d’assalto, anche se in un campo privilegiato: quello degli Organi costituzionali. Leggere di lui mi ha dato una bella scossa di adrenalina. Così pure la “primavera” degli anni Settanta, così simile nei suoi fermenti a quella della mia gioventù…
E adesso arrivo a te. Ti chiami Francesco come mio figlio, sono una vecchia signora e ti ho visto scorrazzare per i vicoli di Gerace, con i tuoi fratelli e i ragazzini della banda, tutti in calzoni corti. Quindi sono autorizzata a darti del tu.
Ho molto apprezzato il tuo rimanere dietro le quinte mentre davi voce e spazio a tutti quelli che volevano parlare di Lei, come un vero direttore che non ruba la scena nello spettacolo che ha come protagonisti gli abitanti, di ieri e di oggi, della tua “piccola città “. In una immaginaria locandina, Alvaro, Dulbecco, Panetta, non reclamerebbero il posto d’onore ma vorrebbero essere, insieme agli altri, le voci di un unico coro.
Come in tutti i paesi c’è sempre un palazzo, inaccessibile ai più: agli altri.
A Gerace ce ne sono almeno quattro: Fimognari, Spanò, Libri e Scaglione, con i giardini che si intrecciano e si intersecano tra loro, come i destini di quelle famiglie. E a questo punto si guarda più che leggere, questo mondo non ostentato, ma così lontano dal quotidiano di Gerace. Sembra finito nel tuo libro per un refuso o, senza scomodare il Gattopardo, essere l’illustrazione di “Un filo d’olio” della Agnello Hornby. La bella Olghina di Robilant riposa lontana dal jet-set internazionale.
Ma a rimescolare le carte, a ricreare armonia là dove avrebbero potuto apparire i primi strappi nel tessuto sociale, ecco i vicoli e le scalinate in cui, correndo tutti insieme semplici ragazzini di Gerace, avete “cresciuto” la vostra infanzia, spingendola fino alla giovinezza delle scelte. Quasi tutti emigranti. Chi di lusso e chi no. Se, come scrive Larosa, il destino ha più fantasia di noi, allora mi piace pensare che a qualcuno sia capitato il colpo di fortuna. Che da sommerso sia diventato salvato e poi vincente.
“Il vibrante e odoroso apparato di biancospino” l’ho ‘riletto’ a occhi chiusi, perché solo in questo modo è possibile cogliere l’amaro e dolce profumo di mandorle che esce dal cuore di quel fiore selvatico e si fa timidamente largo tra le rose gonfie di petali e di colori. Tu cedi la parola a Proust, con riverente rispetto. Ma il sabato del mese mariano da lui descritto in modo così analitico, rivela l’anima di chi della rivisitazione del tempo passato fa un alibi per non guardare il presente e quello che Leopardi con efficacia chiama “il dì futuro del dì presente più noioso e tetro”.
Il tuo racconto è invece gioia pura, non rimpianto. Hai saputo descrivere l’età dell’innocenza, con pochi tratti. Il camice da chierichetto “finemente ricamato e stirato alla perfezione” fa intravvedere mani premurose che si affaccendano intorno a un bambino impaziente di vivere quella gloriosa giornata. Il colore del biancospino e del camice sembra quasi scomparire all’irrompere delle rose: le primedonne di quella liturgia. Ma l’innocenza avrà l’ultima parola. I loro petali doneranno a lei l’inconfondibile dolce sapore sciogliendosi nelle avide bocche dei bambini.
Nella ricerca del tempo perduto, più che il profumo del biancospino, è stato però il tuo palazzo di famiglia a richiamare alla mente un ricordo addormentato per quasi settanta anni. Abitavo a Fabriano, in una casa dignitosa costruita da mio nonno con le sue mani. Dalla finestra della cucina vedevo il muro di cinta del giardino in cui si trovava il palazzo dei conti…. Era nascosto dagli alberi, ma sapevo che c’era. In primavera sbocciavano i lillà e il profumo arrivava fino a me. Frequentavo la seconda media e la loro figlia Giulia era nella mia classe. Una brutta influenza la costrinse a letto per molti giorni e la madre mandò a chiedere alla mia se avessi potuto portarle i compiti da fare. Non avevo motivo di rifiutare. Ed ecco presentarsi il primo disagio. Era pomeriggio e non potevo andare con il grembiule nero che a scuola ci dava una parvenza di uguaglianza. Con il vestito della domenica, che già mi andava corto, in breve attraversai il vicolo che mi separava dal muro di cinta. Il palazzo era più sobrio di quello che ho visto nel tuo libro e sicuramente di dimensioni più ridotte. Ma allora avevo un’altra percezione della realtà e mi parve di entrare in una favola. Mentre finivamo i compiti entrò la cameriera tenendo un vassoio con biscotti e due tazze di cioccolato caldo. Giulia prese la sua e mi invitò a fare altrettanto. La tazza mi tentava ma mi sentivo impacciata. Se solo la cameriera me l’avesse messa in mano… Ma stava immobile. Aspettava con il sorriso ironico di chi sapeva. Nessuna solidarietà di classe. E allora dissi che no, grazie, non prendevo niente fuori orario. La paura di rompere quella fragilissima tazza con il bordo dorato mi aveva sigillato lo stomaco. Né cioccolata né biscotti. Con quella bugia mi ero preclusa la possibilità che mi venissero offerti un’altra volta. Ma la storia finì lì.
Il giorno dopo Giulia tornò a scuola e non ebbi più occasione di varcare il cancello del suo giardino. In fondo eravamo solo compagne di classe, non amiche. Alla fine dell’anno scolastico mio padre ferroviere fu trasferito a Foligno e il ricordo di quella tazza di cioccolata e del mio rifiuto rimase a dormire nella mia anima. Fino a oggi.
Erminia Tricarico