Barricate, milizie armate, vichinghi in tenuta antisommossa. Qualcuno si mette in posa sulla sedia della Speaker della Camera, Nancy Pelosi. C’è chi ruba podi e arredi. La polizia guarda inerme. Scene da film, ma il set è il Campidoglio statunitense, gli attori i manifestanti pro-Trump. Un attacco al cuore della democrazia americana. Obiettivo, impedire la convalida delle elezioni “truccate” che hanno visto il democratico Joe Biden trionfare sul presidente uscente.
Una situazione esplosiva, esacerbata dalla pandemia: «Trump e il Partito Repubblicano hanno capito che la diffusione del virus avrebbe costituito per loro un disastro politico. Così, invece di fare il proprio lavoro e salvare vite, hanno politicizzato la risposta» commenta Tom Nichols, ex repubblicano autore del best-seller La conoscenza e i suoi nemici. Per un’analisi approfondita, abbiamo intervistato Gregory Alegi, docente di History of Americas presso la Luiss Guido Carli.
Come spiega i fatti di ieri?
«È il frutto – neanche troppo inatteso – della martellante campagna di delegittimazione avviata da Donald Trump ben prima delle elezioni. La prova generale è stata a Charlottesville, in Virginia, nel 2017, dove alcuni suprematisti bianchi si scontrarono con la polizia. Molti osservatori interpretarono quei disordini come casuali. In seguito si è visto come il discorso della legittimazione e dell’abilitazione di queste frange abbia caratterizzato l’intero arco della sua presidenza.
L’assalto al Campidoglio ha colto di sorpresa per il modo in cui è sfuggito alle Forze dell’ordine. Due giorni prima Rudolph Giuliani, legale di Trump, aveva parlato di Trial by combat, esaltando la violenza; il tycoon aveva mobilitato i suoi fedelissimi per il 6 gennaio, parlando per settimane di elezioni rubate. A questo si aggiunge il corteggiamento delle frange più estremiste. C’è stata una sorta di pianificazione, alla quale è corrisposto un errore di valutazione.
Ma c’è di più: gli agenti che abbiamo visto nel filmato, la Capitol police, sono inferiori in qualità anche ai vigili urbani. È il servizio di vigilanza del Congresso: sono un po’ come i metronotte di un’università, anche in termini di equipaggiamento. Quando si trovano davanti una folla agitata, vengono messi in difficoltà. Hanno cercato di placare la situazione prima che degenerasse, aprendo le transenne ai facinorosi e facendosi selfie con loro. Hanno fatto il possibile con i mezzi che avevano».
C’è chi sostiene che la Costituzione statunitense garantisca il diritto di assaltare il Parlamento.
«Si tratta dell’interpretazione della alt-right del diritto di portare armi, che vede nel secondo emendamento la facoltà di ribellarsi contro il governo. Ma non è così: il diritto di portare armi è legato alla necessità di difendere lo Stato da aggressioni esterne, tant’è che nei primissimi anni della Repubblica (1786-1787), quando in Massachussets si ebbe la rivolta capitanata da Daniel Shay, essa fu repressa dalle forze armate. Non esiste il diritto a occupare il Congresso: il secondo emendamento dice che la facoltà di portare armi si esplica nel contesto di una Well regulated militia, non per un loro uso indiscriminato nelle sedi istituzionali.
Quando fu scritta la Costituzione non c’era un esercito a tempo pieno né una difesa che pesava oltre 700 miliardi di dollari sul bilancio annuale, ci si difendeva dal nemico (gli inglesi) con l’aiuto della cittadinanza. Nel momento in cui esistono forze armate organizzate (la “Well regulated militia”, appunto), quell’interpretazione decade».
Perché la polizia di Washington non c’era? Mercoledì scorso Trump aveva detto che non si sarebbe arreso.
«È palese che il sistema non fosse preparato. Ci si può chiedere anche se non siano stati troppo “morbidi”. Si è visto che altre manifestazioni (pensiamo a quelle legate al Black Lives Matters) sono andate in tutt’altro modo. Questa è una cosa forse da commissione d’inchiesta: come mai erano impreparati? Se fossimo in Italia, dove abbiamo una Polizia di Stato, allora si potrebbe dire che le forze dell’ordine sono d’accordo con i manifestanti, con il Governo che dice al Ministro degli Interni di andarci piano. Negli Stati Uniti, invece, non esiste una polizia federale sul territorio; esiste un servizio federale di indagini, l’Fbi, ma si occupa di altro. L’ipotesi del complotto secondo cui la polizia non ha risposto perché ha obbedito agli ordini di Trump non sta in piedi, anche perché Washington Dc è una roccaforte democratica. Al momento manca una spiegazione logica».
È la fine della democrazia in America?
«Si potrebbe pensare che sia così. In realtà, al netto di questi fatti, ieri è successa una cosa bella: il ballottaggio in Georgia ha funzionato. Il punto non è chi sia stato eletto, ma che una cosa così importante che va a definire gli equilibri politici dei prossimi due anni [il Senato si rinnova ogni due anni per 1/3, ndr] sia andata senza incidenti. È una buona notizia per la democrazia americana. Il fatto che oggi anche alcuni repubblicani, come la senatrice uscente della Georgia, Kelly Loeffler, abbiano detto che dopo queste scene non si sentivano più di sostenere a oltranza la politica di terra bruciata di Trump sembra una presa di coscienza. Quello del Presidente uscente non era solo un gioco mediatico, ma una vicenda con conseguenze importanti. Il sistema ha ancora degli anticorpi».
Cosa cambierà dopo l’assalto al Campidoglio?
«In termini politici, è auspicabile una riforma del sistema elettorale, per chiarire e regolamentare alcune zone grigie in modo che anche un Presidente “in mala fede” non possa approfittarne. È improbabile, ancorché utile, una riforma che sposti l’elezione presidenziale a livello federale. Alcuni repubblicani hanno criticato le difformità dei meccanismi elettorali nei vari Stati americani: chi ammette il voto postale, chi lo ammette un mese prima, chi accetta voti che arrivano per via postale giorni dopo la chiusura delle urne. Se si sta eleggendo la stessa carica, è curioso che due Stati facenti parte della stessa Confederazione votino in modo diverso. La Costituzione però lascia ai singoli Stati questa scelta. Una riforma del sistema sarebbe auspicabile, ma rappresenterebbe anche uno spostamento forte di potere dagli Stati alla federazione, cosa che tradizionalmente i repubblicani e il Sud vedono con sospetto.
Sarebbe forse possibile accorciare i tempi di insediamento del Presidente. Dal 7 novembre al 20 gennaio sono circa due mesi e mezzo. L’intervallo è concepito per spiegare ogni tipo di incarico e funzione a chi andrà a ricoprirlo, senza che questi perda tempo al momento dell’insediamento, ma forse potrebbe essere ridotto».
Quanto durerà l’eco di questi avvenimenti?
«Credo a lungo. Le conseguenze interne, in particolare, saranno durature, mentre quelle esterne sono difficili di valutare. Già la presidenza Trump aveva eroso il mito dell’America “Gigante buono”, oggi si aggiunge al quadro una turbolenza interna che rende difficile immaginare che il Paese sia affidabile, o possa prendere impegni internazionali e mantenerli. Pensiamo al NAFTA [Accordo per il libero scambio delle merci tra USA, Canada e Messico, North America Free Trade Agreement, ndr], prima criticato e poi ritoccato da Trump. Di fronte a una protesta contro un trattato, simile a quella di ieri, che immagine di sé darebbe l’America? Con quale ottimismo un Paese, anche amico, può pensare di fare un accordo con gli Usa? Agli occhi del mondo non sembrano in grado di mantenere l’ordine, né un partner affidabile, né un attore capace di spiegare le ragioni delle sue scelte ai cittadini.
La sensazione, per uno Stato terzo, è che qualcuno potrebbe persino fomentare ad arte l’opinione pubblica contro eventuali accordi. Biden ha già fatto delle mosse di apertura per dimostrare l’affidabilità degli Stati Uniti, ma gli crederanno? Questo messaggio riuscirà a resistere per quattro anni? Trump ha alzato la posta, e il conto lo dovrà pagare chi lo seguirà nello Studio Ovale. Questo compromette anche le relazioni con gli europei, che potrebbero scegliere di andare avanti senza l’alleato atlantico. A guadagnarci saranno soltanto quelli interessati a demolire questo rapporto, come Cina e Russia. Gli unici che non hanno ancora detto niente sulla questione sono proprio i russi. Sarà un caso?».