«È stato un giorno tragico per gli Stati Uniti». Così Jeremy Caplan, esperto di giornalismo imprenditoriale e digitale e direttore della didattica presso la Newmark Graduate School of Journalism di New York, commenta a Zeta l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso da parte di un variegato gruppo di facinorosi appartenenti alle sette più estremiste della destra americana. «Abbiamo visto un’insurrezione incoraggiata da un presidente che essenzialmente ha commesso un atto di tradimento. È qualcosa che siamo abituati a vedere in Paesi che non hanno una tradizione democratica. Ed è devastante vedere le nostre istituzioni calpestate da un disperato che rivendica il potere perché teme i procedimenti giudiziari e l’irrilevanza».
«Penso che [Trump] sia in serio pericolo. Non solo da un punto di vista legale e finanziario ma anche dal punto di vista politico poiché sono rimasti in pochi nel Partito Repubblicano ad avere fiducia in lui dopo la sconfitta in un’elezione, come quella in Georgia, che sentivano avrebbero potuto e dovuto vincere. Si aspettavano di vincere perché entrambi i candidati avevano ricevuto molti più voti nell’elezione di novembre che nei ballottaggi di questa settimana. Inoltre, molti Repubblicani hanno rinunciato ad opporsi alla certificazione del voto presidenziale e questa è stata una svolta abbastanza significativa».
Il riferimento è al fatto che alcuni membri del Grand Old Party, tra cui la senatrice della Georgia Kelly Loeffler, abbiano deciso – in seguito ai violenti scontri avvenuti all’interno del Campidoglio in cui sono rimaste uccise cinque persone e saccheggiate e vandalizzate le aule e gli uffici del Congresso – di non opporsi alla certificazione del voto presidenziale. «Ora non posso obiettare, in buona coscienza, alla certificazione di questi elettori» ha detto la senatrice mercoledì notte.
Dopo quanto accaduto a Capitol Hill molti Repubblicani e i Democratici hanno fatto pressioni sul vicepresidente Pence affinché si appelli al XXV emendamento della Costituzione americana usato per rimuove (con il vicepresidente che ne prende il posto ad interim) un presidente che non è più adatto a ricoprire la carica, per motivi ad esempio di salute fisica o mentale.
Il XXV emendamento per essere attivato richiede il consenso del vicepresidente e della maggioranza dei membri del gabinetto, nonché la maggioranza dei 2/3 sia al Senato che alla Camera.
Secondo il New York Times, tuttavia, Pence avrebbe per il momento scartato quest’ipotesi. Inoltre, dopo che le sue insistenze e quelle del leader di minoranza al Senato, il democratico Chuck Schumer, sono cadute nel vuoto, la speaker della Camera Nancy Pelosi ha detto ai reporter che procederà con l’impeachment qualora Pence insistesse nel non voler intervenire. «Sebbene manchino solo 13 giorni [al giuramento di Biden, ndr], ogni giorno può essere uno spettacolo dell’orrore per l’America», ha detto Pelosi.
Su entrambe le opzioni – attivazione del XXV emendamento e impeachment – Caplan appare dubbioso. «Penso che se fosse successo uno o due mesi fa ci sarebbero state maggiori possibilità di impeachment. […] Penso che in questo caso, ma è solo una mia supposizione, potremmo assistere a una mozione di censura, che è una maniera formale di criticare il presidente da parte del Congresso. Sarei sorpreso se il parlamento decidesse di procedere con l’impeachment, perché lo scadere del mandato è vicino. Anche il XXV emendamento mi sembra difficile anche perché non sembra conveniente dal punto di vista di un’analisi costi-benefici. In ogni caso Trump ha detto che lascerà il potere in maniera pacifica e sono scettico sul fatto che farà qualcosa di diverso dal mandare qualche tweet. Penso che l’uso da parte dei politici di termini come “impeachment” o “XXV emendamento” sia un modo per sottolineare la gravità di quanto è accaduto; in un altro momento forse avrei preso più seriamente queste parole».
Tuttavia, anche l’arma del tweet sembra essere ormai solo un ricordo dopo che il presidente si è visto sospendere permanentemente dall’azienda californiana, nella giornata di venerdì, il proprio account da 88 milioni di followers, al fine di evitare ulteriori istigazioni alla violenza.
L’attacco al Congresso e le considerazioni di queste ore sul futuro di Trump stanno tuttavia eclissando un altro importante avvenimento, ovvero i ballottaggi nello Stato della Georgia tenutisi il 5 gennaio scorso che hanno consegnato la maggioranza del Senato ai Democratici. Inoltre, lo Stato del sud tradizionalmente conservatore e Repubblicano ha eletto il suo primo senatore afroamericano, il reverendo Raphael Warnock, e il più giovane senatore statunitense dai tempi di Biden e il primo di religione ebraica eletto nello Stato, il trentatreenne Jon Ossoff.
«Questi sono segnali importanti per coloro al potere», commenta Caplan, «perché indicano che quelli con visioni razziste e antisemite non hanno necessariamente il supporto della maggioranza in Georgia e, in generale, nel resto del Paese. Penso che negli Stati Uniti abbiamo ancora un problema con il razzismo e l’antisemitismo ma la vittoria di entrambi i candidati è un grande segnale».
Egli inoltre spende parole di elogio anche per Stacey Abrams, la candidata governatrice dello Stato nel 2018 (sconfitta dal Repubblicano Brian Kemp) da anni impegnata contro la soppressione del diritto di voto in Georgia: «Una parte del merito del risultato di queste elezioni è anche suo. È una figura di ispirazione e carismatica che ha rafforzato le persone mostrando loro come le proprie azioni possano fare la differenza e promuovere il cambiamento».
Leggi anche: «La democrazia americana non è finita, ma qualcosa cambierà». Parla Gregory Alegi.
Foto in evidenza: Martin Falbisoner, CC BY-SA 3.0 , via Wikimedia Commons