Marco Tronchetti Provera è alla guida del gruppo Pirelli, una delle maggiori aziende di pneumatici al mondo, e ha alle sue spalle una lunga carriera imprenditoriale. Dietro l’immagine pubblica di imprenditore globale, però, c’è anche il ragazzo che a vent’anni sognava con la politica, si avventurava nella giungla malese con i pirati dello scrittore Emilio Salgari e frequentava il cinema “Orchidea” di Milano, ammirando i capolavori del neorealismo italiano. Un uomo abituato a sfruttare l’innovazione tecnologica, ma anche il tifoso interista che non ama il Var. Un cittadino cresciuto insieme al suo Paese, di cui ha visto eccellenze e sconfitte. Un uomo che guarda «a ieri solo per immaginare un domani più stimolante».
Dottor Tronchetti, che visione ha dell’Italia post-Covid e come immagina la ripresa industriale, anche alla luce dell’attuale crisi di governo?
«Molto dipenderà dai prossimi due o tre mesi. Di certo ci sarà un’onda negativa dovuta alle riorganizzazioni di quelle società messe in ginocchio dalla crisi pandemica e che difficilmente torneranno a una situazione ante-Covid. Questo significherà perdite di posti di lavoro. Ma, come dopo ogni crisi, verranno le opportunità. Siamo entrati in questa emergenza con un Paese in rallentamento e reduce da una crisi economica decennale. Per la ripresa sarà fondamentale semplificare la burocrazia e gli investimenti dovranno essere condotti nella direzione della competitività indicata da Bruxelles.
Come impiegare al meglio le risorse del Recovery Fund? Non teme un eccesso di presenza dello Stato nell’economia?
Per spendere bene i denari bisogna prima avere il diritto di riceverli: esclusa la prima tranche di 20 miliardi, le altre risorse non arriveranno se non presenteremo un piano di investimenti adeguato da realizzare entro il 2023. Dove investire questi miliardi è presto detto: digitalizzazione, sanità, infrastrutture. Come ho chiarito, però, c’è urgente bisogno di semplificare i procedimenti giuridico-amministrativi. Quanto all’interventismo statale in economia, credo che lo Stato non debba avere compiti gestionali nelle singole imprese, non possiamo tornare al dirigismo degli anni ’60. È chiaro però che per alcune aziende sarà necessario un sostegno finanziario.
Quale futuro vede per i lavoratori e per le imprese italiane?
L’Italia ha perso gran parte delle vecchie strutture industriali, oggi sono le piccole-medie imprese il nostro punto di forza. Se sapremo fare leva sulla nostra capacità creativa e se il Recovery Fund verrà trasformato in un progetto nazionale che coinvolga tutti i cittadini, allora sapremo rilanciarci. Dobbiamo sentirci tutti parte di un progetto, vorrei che ogni comune assumesse personale per rendere la città più bella e vivibile. L’Italia assorbe il 25% delle risorse del Recovery Fund, ma abbiamo un debito pubblico pesante. Per questo l’Europa dipende da noi: se ripartiamo noi, riparte anche l’Unione europea. Però ora siamo in ritardo. Un ritardo causato anche dalla mancanza di competenze di cui soffre il Paese.
Lo Stato ha supportato adeguatamente le imprese durante la pandemia?
Molte cose sono state fatte, ma c’è stata una dispersione di risorse. Senza gli ostacoli burocratici molti soldi sarebbero arrivati prima ai cittadini.
Cosa ne pensa di Mario Draghi come presidente del Consiglio incaricato di formare un nuovo governo?
La decisione del presidente Mattarella di affidare l’incarico al professor Draghi è la miglior scelta possibile nell’interesse del Paese per affrontare le sfide e le opportunità che abbiamo di fronte.
Sia Giuseppe Conte che Mario Draghi sono tecnici: è un segno della crisi della politica?
La crisi politica è un fatto oggettivo, non è legata a un singolo. Non importa se il premier è un tecnico oppure no, ciò che conta è che nei ministeri ci siano persone competenti che migliorino l’amministrazione dello Stato. Bisogna valorizzare le competenze con un progetto chiaro: se c’è da semplificare, bisogna semplificare. Tutti sanno che ci sono degli ostacoli, tutti sanno quali sono e tutti sanno che saranno proprio quegli ostacoli a impedire l’arrivo dei soldi dall’Europa. Perché, come ho detto, con la struttura organizzativa attuale spendere tutti i soldi del Recovery Fund sarà impossibile.
Lei è favorevole allo smart working?
Sono favorevole a un parziale smart working. C’era già prima e sicuramente rimarrà anche dopo la fine della pandemia. Penso però che il rapporto diretto con le persone sia fondamentale e il lavoro agile non può sostituirlo: girare per le fabbriche, rendersi conto della realtà è importante per lo sviluppo di un’azienda. Nei due mesi e mezzo di lockdown Pirelli ha garantito il lavoro da remoto a oltre 2000 dipendenti. Era uno sforzo necessario per uscire dalla crisi rafforzati e non indeboliti, ma mi rendo conto che è logorante stare ore e ore davanti a un video senza poter socializzare. Oggi siamo intorno al 70% di smart working, ma dopo il Covid ritengo ci stabilizzeremo a livelli inferiori al 50%.
Quali strategie sta adottando Pirelli in tema di sostenibilità ecologica?
Nei suoi quasi 150 anni di vita, Pirelli ha sempre dato priorità alla tutela del territorio e all’attenzione per i propri dipendenti in tutto il mondo. Siamo stati tra i primi a tracciare un bilancio legato alla sostenibilità su tutta la filiera di produzione, a partire dalle materie prime, coinvolgendo anche i nostri fornitori in obiettivi sfidanti di riduzione delle emissioni di CO2. Siamo impegnati a ridurre sempre di più l’impatto ambientale sia a livello di prodotti che di processi con l’obiettivo primario di raggiungere la carbon neutrality di gruppo entro il 2030, anche grazie all’utilizzo del 100% di energia elettrica rinnovabile entro il 2025.
Nel mondo della fotografia il Calendario Pirelli è un’icona internazionale: cosa ha guidato la sua evoluzione nel corso degli anni?
Prima regola: lasciare libertà al fotografo di esprimere la sua creatività. Per tanti anni il messaggio è stata la bellezza e l’armonia, ma anche la diversità (siamo stati i primi a fare un calendario di sole persone di colore). Abbiamo 150 anni di storia di azienda multiculturale. Facciamo sempre attenzione a che ci sia un legame tematico con il momento storico. Nel 2020 il calendario non è uscito perché ci sembrava una nota stonata in mezzo a un contesto tragico. Al suo posto abbiamo fatto delle donazioni, ma posso dirvi che il calendario ritornerà: fa parte della storia dell’azienda.
Da dove deriva il suo interesse per lo sport? Ha notizie sui cambiamenti in programma nella proprietà dell’Inter, di cui lei è tifoso, con Pirelli sponsor sulle maglie da 25 anni?
Lo sport è la mia grande passione, lo pratico sin da bambino grazie all’impegno dei miei genitori. Amo il tennis, la vela, lo sci e ovviamente anche il calcio. Fare sport è un modo per riscoprire il rapporto con la natura, anche nelle sue forme estreme, come può capitare in una regata o durante una scalata in montagna. In Pirelli lo sport è onnipresente. Siamo fieri di sponsorizzare la vela italiana: Luna Rossa è una fonte di emozioni senza fine, le imbarcazioni sono straordinarie; quando le vedi sfrecciare sull’acqua a 50 nodi pensi che l’equipaggio è su una barca che vola, e questo dà un’idea di quanto straordinario sia l’uomo. Per l’Inter è un momento di passaggio, ma è importante che la squadra abbia alle spalle una società solida. Nessuno può dire come finirà, ma la situazione si stabilizzerà senza dubbio.
Come giudica l’utilizzo della tecnologia nel calcio, il Var?
Sarò sincero, non mi fa impazzire. L’errore dell’arbitro, in fin dei conti, è una cosa “fantastica”: mi manca arrabbiarmi e lasciarmi andare alle polemiche e a qualche sfottò bonario. Togliere spazio all’errore e al confronto tra i tifosi rende il calcio meno appassionante.
Cosa ha permesso al gruppo Pirelli di diventare fornitore unico degli pneumatici in Formula 1?
Prima di tutto siamo bravi a fornire un certo tipo di pneumatici. Nel 2011 entrammo in gara all’ultimo minuto, ma già allora la nostra strategia era quella di essere leader nel settore dell’alto di gamma a livello tecnologico: la Formula 1 è lo sport in cui lo pneumatico è sollecitato in modo maggiore e in condizioni estreme, è il test principe in termini di sicurezza e di prestazioni. Volevamo dimostrare di essere in grado di sostenere la sfida, stimolando tutto il nucleo della ricerca, e abbiamo formato ricercatori che hanno imparato a lavorare alla velocità delle gare. È stata una scommessa vinta.
Al Consiglio per le relazioni Italia-Stati Uniti, di cui è presidente onorario, ha conosciuto il neopresidente americano Joe Biden. Quali pensa saranno le sue strategie politiche per i prossimi quattro anni?
Il primo segnale chiaro dato da Biden è di essere un presidente che unisce e vuole unire, non solo all’interno dei confini statunitensi, ma anche nel panorama internazionale. Ha lavorato alla commissione esteri del Senato per tanti anni, ha una visione larga e positiva del mondo. Sotto la sua amministrazione ci sarà un riavvicinamento degli Stati Uniti agli alleati europei e un ritorno a una politica estera multilaterale, che porrà fine ai confronti muscolari degli ultimi anni. Sarà l’uomo dell’incontro e dell’equilibrio internazionale. Quello che non cambierà, penso, saranno le divergenze con la Russia e la competizione con la Cina.
A proposito di Cina, cosa si aspetta nel futuro di questo grande Paese?
Il meccanismo di crescita cinese è sano dal punto di vista dell’obiettivo finale, cioè la complessiva riduzione della miseria. Hanno superato la pandemia con uno sforzo difficile da immaginare qui in Occidente, stanno colmando un gap in termini macroeconomici in tempi più brevi del previsto. È però un Paese di grandi contraddizioni. L’Europa può svolgere un ruolo di equilibrio tra USA e Cina, ma per farlo deve essere unita e forte economicamente.
Lei è stato ai vertici del Sole 24 Ore e del Corriere della Sera: come vede il futuro dei media e dell’informazione?
Vedo una grande trasformazione del giornalismo e una maggiore attenzione all’informazione di qualità, di cui si è avvertita la necessità col dilagare della pandemia. Prima del Covid buona parte dei media erano pronti a cavalcare qualsiasi cosa somigliasse a una notizia, ma la paura e l’incertezza hanno portato a rivalutare l’attendibilità delle fonti. La non trasparenza della Rete ha creato confusione e la disinformazione ha favorito l’attecchire di un populismo becero, teso alla rissa verbale. Io credo in un giornalismo di qualità, ma la Rete deve essere più trasparente, seppure nel rispetto della piena libertà. Chi esprime opinioni online deve assumersi la responsabilità di ciò che scrive. Non è possibile che si possa insultare e disinformare restando anonimi e impuniti. Tocca a voi ragazzi cambiare il giornalismo in meglio.
Quali riferimenti culturali sono stati fondamentali per la sua crescita umana e professionale?
Un simbolo della mia giovinezza è stato il cinema Orchidea di Milano, dove ho visto i film del neorealismo italiano e quei capolavori immortali che sono “Il settimo sigillo” e “La fontana della vergine”, entrambi di Ingmar Bergman. Ricordo che ero un divoratore di libri: tra i tanti autori che ho amato ripenso con nostalgia a Salgari e a quella Malesia che non aveva mai visto e che pure riusciva a raccontare così bene. Ho avuto maestri fantastici e una famiglia che mi è sempre stata vicino. Avevo un meraviglioso insegnante di filosofia con cui litigavo spesso: era un prete molto sui generis, ma nelle discussioni con lui ho scoperto il mondo delle idee, Kant, Fichte, Schelling e Hegel. Mi hanno sempre attratto le persone che riflettono su se stesse e sulla vita, mi aiutano a riconoscere i miei limiti. Niente nostalgia però. Se guardo a ieri è solo per immaginare un domani più stimolante.
Che giovane era lei a 20 anni? E quali consigli darebbe ai ventenni di oggi?
Ricordo bene che non accettavo facilmente consigli. Ho sempre rivendicato la libertà. Ascoltare qualcuno diventa più interessante quando non si ha l’impressione di essere consigliati. A vent’anni ero molto interessato alla politica, interesse destinato a svanire in poco tempo, e frequentavo persone più grandi di me. È importante conoscere chi ne sa più di noi e assorbire l’esperienza degli altri, senza che questa venga venduta come consiglio. Secondo me basta l’esempio. Eppure un consiglio mi sento di darlo: fate qualcosa che vi appassioni. Quando c’è la passione per ciò che si fa, la giornata non è mai troppo lunga.