Mi piace pensare che la mia generazione, quella partorita nei primi anni ’90 e trascinata nel terzo millennio a dosi di Playstation e cellulare, possa anch’essa, come altre prima di lei, rivedersi in uno slogan, in un’idea che si fa grido. Mi piace pensare che il nostro motto lo abbia inventato Billie Joe Armstrong, il front-man dei Green Day, quando, nel settembre del 2004, decise di cantare al mondo i mali dell’America: “Don’t wanna be an american idiot!”, “Non voglio essere un idiota americano”. Si apre così il settimo album della punk band californiana: con un rifiuto categorico, divenuto presto un mantra, e con una bandiera a stelle e strisce sporcata di un verde rancido
Benvenuti nell’era del terrore
Nel 2004 gli Stati Uniti erano ancora un Paese aggredito, la grande vittima del terrorismo islamico radicale. La portata dei cambiamenti globali che l’11 settembre 2001 innescò fu enorme: non mi riferisco tanto alle guerre in Afghanistan e in Iraq, ma ai tellurici sommovimenti sociali generati da una paura senza nome che il terrorismo fece esplodere nel cielo di Manhattan.
“Welcome to a new kind of tension, all across the alienation”, “Benvenuti in un nuovo tipo di tensione, ai confini dell’alienazione” cantavano Billie Joe e soci. Dall’attentato alle Torri Gemelle si diffusero ovunque una serie di angosce più o meno inconsce: su tutte il terrore di volare, l’ansia del viaggio e la paura del diverso (specie se di religione musulmana). E poiché la paura è una forza irrazionale, non sempre resta confinata a un oggetto preciso, ma si espande come un cancro a ogni aspetto della vita. A poco a poco, per molte persone i confini mentali e gli orizzonti culturali iniziarono a ripiegare su sé stessi, di paese in paese, di contea in contea, fino all’uscio di casa.
Il grido dei Green Day si stagliava contro tutto questo; non ignorava il dolore della gente ma denunciava, attraverso 13 tracce di un concept album, le forze responsabili di aver normalizzato la paura (il sistema mediatico dell’informazione) e di averla strumentalizzata per i fini più abietti (l’allora presidente George W. Bush, accusato di aver giustificato l’invasione dell’Iraq sulla base di quelle che oggi chiameremmo “fake news”). Più di tutto, quel grido cercava di destare dal torpore il prototipo dell’idiota americano, un uomo col sedere incollato al divano, gli occhi ipnotizzati dalla tv e la mente in perenne stato di disperata quiete; una spugna alimentata ad alcol, droghe e terrore mediatico.
Rabbia e amore
“I’m the son of rage and love, the Jesus of Suburbia”: l’album “American Idiot” racconta l’alba di una nuova epoca, “The age of paranoia”, attraverso gli occhi di Jesus, un ragazzo ribelle che cerca di dare alla propria vita un senso che vada oltre la passiva accettazione dell’infelicità. Decide di farlo abbandonando la ragazza, gli amici e la propria casa, intraprendendo un viaggio attraverso le macerie emotive e spirituali della nuova America che si stordisce in una perenne “Holiday” pur di non fare i conti con sé stessa. Jesus è diverso per il fatto di provare ancora qualcosa che lo faccia indignare, che lo porti a mettere in discussione sé stesso e il mondo intorno a lui, mosso da quell’ira tanto cara a Billie Joe Armstrong, il quale una volta dichiarò «Ho sempre pensato che la rabbia fosse molto più interessante che starsene tranquilli».
Ma il sentirsi diversi dalla realtà che ci circonda conduce sempre su “una strada solitaria. È la strada, per molti, delle speranze mai realizzate, dei sogni infranti. “Boulevard of broken dreams”, uno dei brani più iconici, ancorché meno politici dell’album, è la discesa negli inferi che ogni uomo deve affrontare per restare umano: è il ritrovarsi da soli con le proprie paure e i propri dubbi, domandarsi se tutto ha un senso, se vale la pena agire o se la nostra vita non è altro che “l’attesa sconosciuta di qualcosa”.
La buona notizia è che “non è mai finita fintanto che si è vivi” (“It’s not over ‘til you’re undergound”, dal brano “Letterbomb”), dove il verbo vivere assume un significato ben più alto del semplice fatto di respirare. Conoscere sé stessi, trovare qualcosa in cui credere è la vittoria dell’uomo sull’apatia, sull’alienazione, è la via di fuga dall’idiota americano.
16 anni dopo, i Green Day avevano previsto tutto
Con la musica, come con gli scherzi, si può dire qualsiasi cosa, persino la verità. Si può dire che un presidente ha mentito al proprio Paese; si può mettere in guardia le persone dall’irrazionale paura del diverso, dall’allarmismo immotivato dei media, dalla disinformazione. Perché la verità non sta tutta nella bocca degli anchor men, così come la sicurezza non è solo dentro le mura domestiche.
American Idiot, comunque, non fu uno scherzo: con 16 milioni di copie vendute in tutto il mondo è stato l’album di maggior successo dei Green Day, secondo solo a “Dookie” del 1994. Se però con Dookie il trio di Berkeley si era presentato sulla scena come un gruppo punk anni ’90 i cui testi parlavano di masturbazione, droghe e disagio adolescenziale, con American Idiot il punk evolve in rock, la durata dei brani si allunga (Jesus of Suburbia e Homecoming superano i 9 minuti) e l’ira giovanile matura in vera e propria denuncia politico-sociale. American Idiot ha regalato l’immortalità al gruppo, ne ha ampliato il pubblico e l’ha proiettato dritto negli anni 2000. E non solo.
Nelle ultime settimane mi sono messo a riascoltarlo con la stessa ossessione di quando avevo undici anni, ma con una consapevolezza differente, per certi versi inaspettata. Nel ricantare testi che conosco ormai a memoria, non ho potuto fare a meno di percepire un che di profetico. Per i Green Day il grande nemico erano “i nuovi media”, capaci di manipolare i sentimenti e le emozioni delle masse; erano la propaganda, le menzogne dell’establishment, era una società che si poneva come ideale la formazione di un mansueto gregge di idioti, più che di un popolo colto e consapevole.
La cosa sorprendente è che nell’autunno del 2004 l’onnipresenza del sistema mediatico nella vita delle persone era uno scherzo rispetto a oggi. I social network non esistevano. Facebook era stato lanciato da pochi mesi ed era ancora uno strumento confinato al perimetro dell’Università di Harvard. Non c’erano You Tube e tantomeno i sistemi di messaggistica istantanea. Ciononostante i Green Day cantavano di un mondo in pericolo, di una società alienata e drogata, rassegnata a retrocedere dinanzi a una subdola e invisibile manipolazione emotiva.
Il paragone con i giorni nostri, dove l’informazione proviene da un numero spropositato di fonti, per la maggior parte inattendibili, dove lo smartphone è diventato il prolungamento della mano, dove le persone trascorrono quasi l’intera giornata davanti a uno schermo, fa tremare i polsi. Se prima bastava spegnere la tv per disconnettersi dal “Matrix”, oggi rinunciare ai social e a Whatsapp equivale a una scelta di vita ascetica. E se ricordiamo l’amministrazione Bush come un establishment bugiardo, cosa dovremmo dire dei quattro anni di Donald Trump? E poi, non ricordo le sette di terrapiattisti, no vax e compagnia cantante. Ma su questo fronte ammetto la mia ignoranza, magari c’erano e non l’ho mai saputo.
Rispetto a sedici anni fa l’american idiot dei Green Day non solo è un po’ più “idiota”, ma non è più solo americano. Si è moltiplicato, si è evoluto, si è sempre più dissociato dalla realtà. Se prima non aveva nulla in cui credere, oggi crede in cose non vere. Se prima il suo pensiero era anestetizzato e vuoto, oggi è radicalizzato e gonfio d’odio e la causa è sempre la stessa: un’inconfessabile e inascoltata paura. Mi piace pensare che i Green Day avessero intuito la pericolosità di un fenomeno all’epoca ancora in stato embrionale. È la consolazione di chi ha visto e subito tutto senza capire, se non troppo tardi. È una consolazione da scemi, anzi, da idioti. Ed è con questa colpa sul cuore che apro Spotify, alzo il volume al massimo e grido, oggi più di ieri: “Don’t wanna be an american idiot!”
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