«Caputo? Castro, Castro c’è?» urla uno degli operatori con la pettorina blu, che si occupa di gestire i flussi di persone in fila pronte a ricevere la loro dose di vaccino. Non sono in molti oggi all’Auditorium Parco della Musica, a nord di Roma, sarà perché quando il sole fa capolino è una tiepida domenica di primavera. Quelle di prima del lockdown, sornione e rilassate. Quasi non è cambiato nulla: i bambini scorrazzano sulle biciclette a quattro ruote, sotto gli occhi vigili dei genitori: «Francesco impara, bisogna chiedere permesso», poi sfrecciano a zig zag tra chi è in fila ad aspettare. E i giochi a palla e i giri in passeggino di mamme allegre e chiacchierone, quasi non sembra di essere davanti ai 750 mq di centro vaccinale allestiti per inoculare il siero ai «nonni d’Italia».
Nelle dieci postazioni dell’hub predisposto dalla Asl (Azienda Sanitaria Locale) Roma 1, in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma, può vaccinarsi la popolazione over 80. È necessario prenotarsi prima sulla piattaforma digitale della regione Lazio, Mario racconta che ha provato una volta e non andava, alla seconda invece tutto liscio. Il vaccino a disposizione è quello di Moderna. «Che salvata – sospira Antonio – ma forse hanno fatto male a dire tutte quelle cose su AstraZeneca».
Antonio ha 86 anni e un dolore fisso alla gamba che lo fa zoppicare, tanto che aspetta il suo turno seduto sulla sedia a rotelle che gli ha portato uno dei ragazzi con la pettorina blu. Ha la voce roca e per lui il siero anglo-svedese si chiama AstraZenica, con la i. «Un po’ di emozione c’è, ma una punta, poca poca. Tra poco vado e sarà tutto finito», dice. Qualche secondo di silenzio, poi non si trattiene: «E comunque questo non è il coprifuoco vero, quello di quando io ero ragazzino e c’era la guerra. A quel tempo mica ci chiamavamo con i telefonini, sentivamo le bombe e la casa che tremava».
«Ma questi so’ ragazzi Antò, non puoi sempre guardare indietro». È Fausta, 80 anni, sua moglie. È minuta, aspetta anche lei il suo turno sotto il tendone bianco con qualche sedia sistemato a destra del gabbiotto per l’accettazione. «Sono soddisfatta di come stanno gestendo la situazione in questo centro vaccinale, l’organizzazione è perfetta e hanno anche fornito la sedia a rotelle a mio marito. Gentilissimi davvero». Racconta che è tranquilla, l’unico desiderio è che il vaccino le permetta di rivedere presto i suoi nipoti, di 18 e 20 anni, in sicurezza: «Io spero sia possibile, ma naturalmente mi atterrò alle cose che dice la televisione. Se si può sarò contenta, altrimenti ci saluteremo dalla finestra».
Sei chilometri più a sud e 18 anni in meno, Rita getta uno sguardo distratto all’orologio prima di iniziare a parlare. È un’insegnante di scuola elementare ed è venuta all’hub vaccinale della stazione Termini, a due passi dal centro storico, per vaccinarsi insieme alla sua collega Carla, 57 anni, maestra anche lei. «Abbiamo appena fatto la prima dose di AstraZeneca, con mille interrogativi, però insomma alla fine ci siamo decise» dice la prima. «Penso sia giusto farlo, è un vaccino comunque ormai molto collaudato quindi sono tranquilla» le fa eco l’amica.
Come all’Auditorium, anche qui la fila è snella e scorre. Qualcuno aspetta vicino alla corsia dei taxi, altri fumano o parlano al telefono. Tra loro c’è Luca, 50 anni e uno zainetto rosso fiammante sulle spalle. Insegna religione e vorrebbe rivedere presto i suoi ragazzi, recuperare la normalità: «Ho fatto AstraZeneca, ero un po’ nervoso, ma a ripensarci lo rifarei tranquillamente, proverò anzi a fare passaparola dicendo a tutte le persone che conosco di farlo per sfatare questi falsi miti». Si è vaccinato per i suoi alunni e per proteggere la sua famiglia. «Mia madre non sta molto bene quindi l’ho fatto anche per tutelare lei, sentivo un senso di responsabilità in più».
È la volta di Roma est, di cui il policlinico Sandro Pertini è il polo medico di riferimento. Un ospedale relativamente giovane, quello intitolato all’ex presidente della Repubblica nel 1990, con un grandissimo parcheggio e tanti spazi, persino un eliporto. Qui la Primula è stata allestita nella Palazzina C, la più vicina all’entrata pedonale, ma al nostro arrivo non c’è fila. Solo una lunga linea gialla, fino all’ingresso, e un cartello con un fiore viola e alcune indicazioni. Poche persone, perlopiù anziane, si incamminano verso la porta del padiglione vaccinale, quasi tutte accompagnate da figli, nipoti, badanti. Sguardi bassi, bocche cucite, cartelline sottobraccio.
«Hai preso tutti i documenti? Guarda che non ci fanno entrare». Letizia, scortata dalla figlia Pina, è tra le fortunate che oggi riceveranno la dose di vaccino, la seconda per lei. 86 anni, aggrappata al braccio della figlia, il pensiero va alle persone spaventate dal caso AstraZeneca, sospeso dall’Agenzia Italiana del Farmaco per ragioni precauzionali. «A chi ha dubbi dico che è importante: se uno lo deve fare, lo deve fare», afferma. Le è andato in sorte il siero Pfizer-Biontech, mentre Pina, che di anni ne ha 54, è stata da poco vaccinata con il discusso farmaco anglo-svedese, in quanto insegnante. «Sono stata male una notte – spiega –. Ho vomitato e ho avuto un po’ di febbre, ma già la mattina dopo stavo meglio. Almeno, ora mi sento più sicura». Due generazioni, due diversi vaccini. «Non ho mai avuto dubbi – ci tiene a precisare Letizia – il vaccino è l’unico modo che abbiamo per uscirne». Un saluto veloce, e si incamminano verso l’ingresso, sottobraccio.
Ultima tappa: la profonda Roma sud. Nel cuore del quartiere Eur, il Nuovo Centro Congressi dell’architetto Massimiliano Fuksas, noto come La Nuvola, ospita uno dei più grandi centri vaccinali in Italia. Da qui sono passati in visita anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e, in occasione dell’inaugurazione, il ministro della Salute, Roberto Speranza, e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Fuori dalla vistosa struttura, un capannello di curiosi osserva i vaccinandi aspettare in fila indiana il proprio turno, mentre la polizia controlla che sia tutto in ordine.
Giuseppina è un po’ defilata rispetto agli altri. Gira e rigira tra le mani una cartellina piena di fogli, molti dei quali spiegazzati. Su uno di questi spicca il logo dell’Asl Roma 2, quella della sua zona. Una ragazza con il suo stesso profilo le toglie una ciglia dagli occhi: «Come stai?», «Sei stanca?», «Hai fame?». Ma Giuseppina preferisce guardare quei documenti che rispondere alle stesse domande più volte.
«Mi vaccinerò con AstraZeneca. Un po’ mi spaventa, ma la televisione ancor di più. Dicono tutto e il contrario di tutto: ieri, dal mio divano, li ho mandati all’Inferno». La voce è roca, quindi si avvicina di più al registratore. «Adesso sono tranquilla – continua – ma sono stanca di sentire certe cose». La donna parla e quella ragazza a lei così simile non le toglie gli occhi di dosso. Giuseppina non ama dire la sua età, ma alla fine si lascia scappare un «sessantatré» a denti stretti. Quando parla del suo lavoro, il sorriso si allarga. «Sono un’insegnante, ancora per poco. Appena ho finito qui, devo subito tornare a casa a preparare la lezione di domani». Lunedì è il giorno di Dante.
Mentre la professoressa aspetta la sua dose, un uomo di mezz’età si mette in fila dietro di lei. I capelli sono brizzolati, le lenti degli occhiali appannate sopra la mascherina. Nella mano destra, una valigetta color cuoio. «Mi sento alla grande», le sue prime parole. Giovanni è un infettivologo, ha trentasette anni e vive da solo da sei. Ad accompagnarlo, nessun parente o amico, solo la fede nella scienza. «Il vaccino è l’unica cosa importante in questo momento, invito tutti a farlo». Il caso AstraZeneca non lo ha preoccupato. «Guardando i numeri – dice – non capisco il dramma. Le trombosi sospette rientrano probabilmente nella statistica».
È il momento di avanzare nella fila. Giovanni prende il gel disinfettante dalla tasca dei pantaloni e se lo passa sulle mani, stando bene attento a non mancare nessun dito; si aggiusta gli occhiali sul naso e porta la valigetta dalla mano destra alla sinistra. Solo allora fa un passo avanti.