“La situazione a Corviale era già drammatica, ma con il Covid è diventata una tragedia”. Massimo Vallati ce lo racconta dal campo che ha costruito, insieme ad altri volontari, in tanti anni di sacrifici. Nella periferia ovest di Roma sorge il Campo dei Miracoli, dove si gioca a Calciosociale per contrastare il degrado e la criminalità che caratterizzano la zona. Si tratta di un’esperienza nata per educare attraverso il calcio. Uno sport, inteso come metafora della vita, che diventa veicolo per parlare ai ragazzi di tematiche come l’accoglienza, il rispetto delle diversità e il sano rapporto con la società. Un progetto che, come tutti, ha dovuto vedersela con la pandemia.
“In quartieri come quello di Corviale c’è un altissimo tasso di disoccupazione e il Covid ha aggravato la situazione. Per rispondere all’emergenza ci siamo trasformati in un hub di distribuzione mascherine, vestiti e alimenti. Abbiamo offerto anche un supporto psicologico, per sostenere le persone in questo momento estremo”. Con il Coronavirus il Calciosociale ha modificato sé stesso per resistere alle difficoltà: “Cerchiamo di fare un progetto di resilienza. Abbiamo diviso il campo in sedici riquadri per permettere ai ragazzi di sfogarsi, anche senza contatto fisico. I cambiamenti che abbiamo dovuto fare hanno trasformato le nostre attività, ma era l’unico modo per renderle attuabili in questo momento”.
Ma una realtà del genere senza adesioni perderebbe senso. Per questo Massimo racconta preoccupato: “Abbiamo avuto grandi difficoltà anche nella partecipazione, perché tanti ragazzi non vogliono giocare col distanziamento. Facciamo fatica a dialogare con loro per convincerli che è meglio giocare in questa maniera piuttosto che rinunciare a stare insieme. Adesso i ragazzi passano molto tempo in casa dove restano a contatto con situazioni drammatiche, relazioni in ambienti difficili che amplificano il disagio psicologico”.
Non per questo gli educatori si sono arresi, anzi hanno continuato ad allenare i ragazzi e seguirli dal punto di vista pedagogico. Fabio, uno di loro, ci ha dato la sua visione: “Non siamo mai stati così tanti come in questo periodo. C’è voglia di fare, anche perché il lockdown ha colpito un po’ tutti. È stata un’occasione per formarci di più ed essere pronti alle nuove esigenze dei ragazzi. Una sfida difficile che abbiamo deciso di accettare”.
Le criticità, però, sono sempre quelle: “Alcuni hanno smesso di venire, perché non si divertivano più o per la paura del contagio. Noi facciamo il massimo per farli giocare in sicurezza, anche se so che può sembrare anti-calcio. Cerchiamo di aiutarli il più possibile, ma dobbiamo rispettare ciò che ci dice il governo”. Una realtà solidale che fatica, che resiste per essere d’aiuto per i giovani del quartiere. Una linea tra legalità e illegalità, ma anche tra inclusione e razzismo, di fronte al “Serpentone”.