«Detestiamo i nostri padroni dietro una facciata d’amore, o li amiamo dietro una facciata di disgusto?» si chiede l’autista-servo Balram, guardandosi allo specchio. È una delle scene di The White Tiger, thriller di Netflix, scritto da Ramin Bahrani e basato sull’omonimo romanzo di Aravind Adiga del 2008, vincitore del Booker Prize, segue l’ascesa di un giovane – di grandi speranze e scarsi mezzi – tra i ranghi del sistema di caste dell’India per raggiungere la propria libertà.
La scena de “l’odore dei poveri” che avevamo visto in un film come Parasite è qui sostituita da una serie di immagini in cui il giovane padrone va a vedere con i suoi occhi le condizioni in cui vivono nei seminterrati del suo palazzo domestici e autisti, stupendosi di quel sudiciume, degli insetti e del buio. «Tu davvero vivi qui?». «Per me questo è come vivere nel Taj Mahal, Sir». «Il Taj Mahal è una tomba, Balram, nessuno ci vivrebbe dentro».
Il film non è condiscendente nei confronti del pubblico, scherza ma non ride, e trova nel rifuggire i messaggi specifici la sua chiave. Come nei romanzi complessi ha la mirabile capacità di far empatizzare con eroi “ambigui”. Non con il classico eroe buono, ma con uno molto più complesso ed estremo, che prende parte a una narrazione in un certo senso “machiavellica”, che per sua stessa natura fa un salto a piè pari oltre le leggi della morale.
Il sorriso del giovane Balram è un sorriso vuoto, ripetitivo, quasi un tic svuotato del proprio significato, un sorriso che si è fatto abitudine professionale, come quello che raccontava David Foster Wallace in Una cosa divertente che non farò mai più. È un riflesso, un sorriso vuoto mantenuto mentre il servitore si chiede se in realtà odia il suo padrone, e mentre decide anche se un giorno potrebbe in qualche modo diventare lui il padrone stesso.
The White Tiger si regge sul simbolismo. Il pollaio e l’animale esotico che da il titolo all’opera quali metafore contrapposte. Balram, nelle sue parole di narratore, afferma che la stragrande maggioranza dei poveri dell’India sono come i polli da macello, intrappolati in una gabbia mentre vedono i propri simili fatti a pezzi lì fuori. Sanno di essere i prossimi, ma è come se fossero consci che solo la servitù e la morte li aspettano, e non considerano mai la fuga o il mutamento di questa condizione come una delle opzioni sul piatto.
Ma c’è anche il candido felino che dà il titolo al film, una animale esotico e raro che Balram vede una volta in uno zoo. «Una bestia nata solo una volta in una generazione» e destinata a liberarsi dal suo recinto, a uscire dalla propria condizione di sofferenza. Durante le scuole elementari, la famiglia del protagonista – dopo la morte del padre per tubercolosi – lo costringe a rinunciare alla sua borsa di studio per una prestigiosa scuola di Delhi, per farlo invece lavorare in un negozio di tè per pochi centesimi. Una prospettiva per loro molto più reale e certa. La sua responsabilità e il suo posto nel mondo sono quelli di guadagnare per l’avida e arcigna vecchia nonna, matriarca incontrastata di quel disordinato nucleo. Anche quando gli viene offerta la possibilità di uscirne, la sua famiglia si rassegna al pollaio.
Il mondo del cinema è ancora sconvolto dal capolavoro di Bong Joon-ho, Parasite, e la lotta di classe sembra essere tornato un tema al centro dell’interesse della pubblico. La Tigre Bianca non è differente, dato l’affresco che offre nell’esplorazione psicologica della povertà indiana. Nonostante siano una nazione incredibilmente diversificata di oltre 1,3 miliardi di persone, i film ambientati in India, probabilmente anche grazie all’influenza di Bollywood e a pellicole come Slumdog Millionaire, portano ancora con loro tutta una serie di aspettative specifiche. Colori vividi, action tamarre, musica di un certo tipo, e un vago quanto ingenuo alone di ottimismo a speziare il tutto.
In White Tiger, il regista Ramin Bahrani, adattando il successo letterario di Aravind Adiga, gioca proprio su quelle aspettative, ribaltandole, per offrire qualcosa di completamente diverso: una prospettiva intima sulla sottomissione e sulla fiducia, assieme a un’accurata critica sociale attraverso una storia oscura e avvincente. Un’esplorazione di classe, casta, cultura e capitalismo che invece non è particolarmente solare, e in cui certo non si balla sui Panjabi MC.
Il servitore Balram è l’affidabilità personificata, al punto che arriva spesso a odiarsi per questo. Quando viene incastrato da persone più influenti di lui per un fatto che nemmeno ha commesso, si abbandona come un ingenuo al volere dei suoi capi «senza nemmeno aver considerato per un attimo di avere altre opzioni». La Tigre Bianca dipinge l’affidabilità come la debolezza primigenia: i ricchi del film ottengono il loro potere attraverso la corruzione, attività che svolgono di continuo, trasportando grosse somme di rupie in sontuose borse di cuoio rosso, mentre i poveri credono con religioso puntiglio nel valore del lavoro onesto.
Entrambi sono estremi. Persino l’eroina dei poveri, una funzionaria eletta soprannominata e venerata come “The Great Socialist” estorce regolarmente grosse tangenti a ricchi uomini d’affari per deregolamentare il mercato per loro. Emerge una critica acuta dei politici indiani che reclamizzano il socialismo per ottenere voti dai poveri, salvo poi incrementare il divario di ricchezza a vantaggio personale una volta eletti. La famiglia di Balram si arrocca stoica nella servitù generazionale del chiosco del tè ed evita le opportunità di lavoro meglio retribuite perché continua a confidare nell’affidabilità, anche quando questa gli dà prova del contrario. Venerano e rieleggono “The Great Socialist” nella speranza che magari un giorno le sue promesse li liberino dalla loro condizione.
«Il ritratto del ciclo di povertà sistematica è avvincente e inquietante», afferma Abraham George, autore di India Untouched: The Forgotten Face of Rural Poverty e fondatore della Shanti Bhavan Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che ha educato oltre 400 bambini svantaggiati negli ultimi 23 anni, circa la metà dei quali provenienti da villaggi rurali. Quello che nella sua interpretazione manca alla vicenda di Balram, è che se l’istruzione e il riscatto economico sono spesso la chiave per risollevarsi dalla povertà e dagli abusi verbali – come quelli che Balram ha subito per anni in silenzio da parte della famiglia del suo datore di lavoro – non è così semplice. Anche con una buona istruzione, le donne povere in particolare hanno difficoltà a trovare posizioni ben retribuite, e anche persone che economicamente si siano riscattate uscendo dalla povertà, si trovano ancora a dover fare i conti con la loro provenienza di casta, che nonostante economicamente abbiano abbandonato è una cosa che ancora agli occhi di gente che sta più in alto “non si cancella”.
L’India è un luogo complesso, un luogo che fa della complessità la sua stessa essenza, ma fortunatamente Balram ha confezionato molte analogie per aiutarci a capire mentre ci guida con la sua voce. Dice più e più volte che nonostante le mille caste, l’India ha fondamentalmente due mondi: la luce e l’oscurità. Due classi: padrone e servo; quelli con la pancia gonfia e quelli con la pancia asciutta. Balram, ovviamente, proviene dal mondo oscuro, la classe dei servi, nello specifico da una casta nota per la produzione di dolciumi. È un bambino prodigio il cui preside promette che un giorno otterrà una borsa di studio per una prestigiosa istituzione a Delhi. Ma, sovvertendo le aspettative fin da subito, questa non deve essere una storia sui fortunati, le eccezioni alla regola, quei ragazzi borsisti che continuano a prosperare seguendo le regole.