Un gruppo di soldati viene accolto con urla di gioia e canti in un piccolo villaggio della Cina continentale. Alcune donne si avvicinano a loro per infilargli del cibo nelle tasche dell’uniforme, mentre sul muro i contadini scrivono la nuova legge agraria del Partito Centrale Comunista (Pcc). Dachun è tornato a casa con l’esercito rosso per liberare la sua amata Xi’er dagli abusi del proprietario terriero, a cui era stata data in sposa due anni prima. La luce del fuoco illumina il suo volto tra le montagne e rivela ciò che sembra essere un fantasma dai lunghi capelli bianchi piuttosto che la giovane ragazza. La scena del film La ragazza dai capelli bianchi è considerata un’icona della cultura visiva del Pcc ed è uno degli esempi migliori per comprendere il controllo che quest’ultimo ha avuto, e mantiene in parte, sulla produzione cinematografica del Paese.
«Durante gli anni di presidenza di Mao Zedong, dal 1954 al 1959, il cinema era considerato uno strumento d’intrattenimento pedagogico nella Repubblica Popolare Cinese. Agli studi cinematografici, di proprietà dello stato, veniva chiesto di produrre film che illustrassero la politica del governo» spiega Chris Berry, professore di studi cinematografici al King’s College di Londra ed esperto di cinema cinese e dell’Asia orientale. Ne La ragazza dai capelli bianchi, ad esempio, il malvagio proprietario terriero viene circondato da una folla di contadini che vogliono punirlo per gli anni d’oppressione: azione intrapresa dal governo di Mao durante la riforma agraria che vide lo sterminio di massa di questa classe e la redistribuzione delle terre ai contadini del villaggio. Solo perseguendo i valori comunisti alla base della Repubblica Popolare Cinese, infatti, la giovane Xi’er torna ad avere i capelli neri e lo sguardo vivo mentre nell’ultima scena del film lavora nei campi con il suo amato Dachun.
Dagli anni ’80 in poi l’industria cinematografica in Cina inizia un lento processo di trasformazione che la porterà a seguire la logica del mercato, pur continuando ad operare sotto il rigido controllo dell’apparato Partito-Stato. È in questi anni che nei film e nei documentari iniziano a vedersi le prime critiche al governo. «L’atmosfera di Pechino è deprimente», dice Zhang Dali con lo sguardo vuoto, ripreso in una stanza dal regista Wu Wenguang nel 1990. Dopo la laurea nel 1986 ha deciso di trasferirsi nella capitale per fare il pittore «Ma sono stanco dell’ambiente culturale che c’è qui», continua. La scena in Bumming in Beijing: The Last Dreamers, è una delle prime a mostrare la vita reale, le difficoltà di un gruppo d’artisti che vivono nella periferia di Pechino agli inizi degli anni ’90. La produzione dal budget limitato risente del taglio dei finanziamenti statali avvenuto dopo le proteste degli studenti e degli operai contro il governo avvenute in piazza Tian’anman nel 1989, culminate in una violenta repressione. Ma questa generazione di registi riuscì a trovare i fondi necessari, spesso ad Hong Kong o in Giappone, per creare film ispirati al neo-realismo italiano che potessero raccontare cose davanti a cui la maggior parte delle persone chiudeva gli occhi in quel periodo.
«Questo genere di documentari, raccolti sotto il nome “The New Chinese Documentary Film Movement”, venivano tollerati dal Partito purché non toccassero questioni delicate», spiega Chris Berry che a questo movimento ha dedicato un saggio uscito nel 2010 per la Hong Kong University Press. Temi che invece affronta il regista Zhang Yimou ad un anno dalla produzione del documentario di Wu con Lanterne Rosse, vincitore agli Oscar come miglior film straniero nel 1992. La storia di Songlian, da studentessa universitaria a concubina dopo la morte del padre, è la denuncia di una società che annulla la volontà e l’identità della donna. Ma la pellicola dai toni rossi, tipici delle lanterne cinesi, non riuscì a superare i controlli del Partito.
«Oggi, invece, il mercato cinematografico cinese funziona come nella maggior parte dei Paesi occidentali: la produzione si basa su un sistema che considera le attrici e gli attori più famosi al momento e i generi più visti. Ma nessun film può esser rilasciato senza aver oltrepassato il muro della censura, determinata dalla politica tanto quanto dalle norme comunitarie», afferma il Professor Berry. Ci sono limiti alle importazioni straniere che incoraggiano i registi cinesi a competere col mercato, ma non permettono loro di essere sopraffatti da Hollywood o da altre industrie straniere. Una strategia che non ha come unico obiettivo la crescita dell’industria cinematografica nazionale, ma che funziona anche come filtro per evitare che temi delicati possano diffondersi nel Paese. È il caso di Nomadland di Chloé Zhao,ad esempio, vincitore come miglior film e migliore regia agli Oscar 2021. Una vittoria ignorata nel suo Paese d’origine a causa di un’intervista che la regista ha rilasciato nel 2013, in cui ha raccontato che la sua infanzia in Cina era stata piena di «bugie ovunque». La partecipazione agli Oscar di Zhao e del documentario sulle proteste ad Hong Kong, Do not split, del regista norvegese Anders Hammer hanno addirittura portato il governo a censurare la cerimonia degli Oscar per la prima volta in 52 anni.
«Questa concorrenza controllata e la crescita economia del Paese hanno portato il box office cinese ad essere il secondo più grande al mondo prima della pandemia. E, probabilmente, è destinato ad arrivare in vetta alla classifica al termine dell’attuale crisi sanitaria», spiega Chris Barry. Negli ultimi anni le trame dei film sono sempre più semplici, riciclate da un immaginario collettivo, come in The mermaid film campione d’incassi in Cina nel 2017 che racconta la storia di una sirena che cerca di salvare la riserva naturale in cui vive da un imprenditore senza di scrupoli, di cui però s’innamora. Commedie e film romantici sono i generi più prodotti, mentre la censura del Presidente Xi Jinping sembra acquisire sempre più forza. «Noi registi sopravviviamo in uno spazio ristretto. Balliamo con le catene, ma vogliamo ancora ballare. Vogliamo esprimerci», ha detto in un’intervista all’emittente televisiva statunitense Abc news Li Yang, uno dei registi più apprezzati del cinema indipendente, che per poter distribuire il suo ultimo film nel 2018, Blind Way, ha deciso di scendere a patti con la censura del Partito.