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Esclusiva

Aprile 25 2021
Gli Oscar 2021 tra immigrazione, discriminazione e impegno civile

«L’arte è libera, non è né politica né corretta». L’opinione di Antonio Monda sui film in concorso e su molto altro: dal politicamente corretto, al razzismo, alla cancel culture

Definito dal New York Times: «un istituto di cultura raccolto in una sola persona», abbiamo intervistato sul tema degli Oscar 2021, Antonio Monda, professore di Cinema alla New York University, Direttore della Festa del Cinema di Roma e autore del libro, da poco uscito per Mondadori, “Il principe del mondo”.

Dalla pandemia, alla fine dell’era Trump, fino al movimento Black Lives Matter, come si riflettono gli avvenimenti dell’ultimo anno nei film in concorso a questi Oscar?

«Il riflesso è abbastanza indiretto e soprattutto per motivi legati al Covid. Molti film sono slittati, non sono usciti, o sono attualmente in produzione, quindi non c’è un nesso così diretto. Tra i favoriti – anche se quest’anno è più strano del solito – ci sono Nomadland, Mank e Il processo ai Chicago 7. Lo stesso Minari è abbastanza quotato. Non hanno un elemento diretto rispetto alla fine di una presidenza, secondo me sciagurata, e l’arrivo della nuova. Indirettamente, però, ci sono alcuni elementi. Per esempio in Nomadland, è raccontata la vita di questi nomadi che preferiscono restare nella loro solitudine e in condizioni di assoluto disagio, piuttosto che rientrare all’interno di un’istituzione. Minari è una storia di immigrazione negli anni in cui la politica dell’amministrazione Trump ha frenato e fatto di tutto per chiudere le frontiere. Ha addirittura costruito un muro, negando così la promessa americana. Ecco, questo è un film che in qualche modo ne parla. Il processo ai 7 di Chicago, invece, racconta un processo incredibile, clamoroso, che ebbe parallelamente una serie di proteste e moti che sfociarono nella violenza. Ma quanto è direttamente legato a quello che succede ora? È un film legato al classico impegno civile americano ed è un’anomalia perché diretto da un grandissimo sceneggiatore al suo secondo film come regista. Parlo di Aaron Sorkin. Infine Mank, pellicola sul cinema, su un grande sceneggiatore, un po’ negletto e dimenticato, con talento e un grande vizio, quello dell’alcol».

Per quanto riguarda invece i criteri con cui sono stati selezionati, nonostante non siano ancora entrate in vigore le nuove regole per poter essere nominati a miglior film…secondo lei è già cambiato qualcosa?

«Io sono molto critico su questi nuovi criteri».

Cosa ne pensa quindi?

«Secondo questi criteri, non sarebbe stato eleggibile un film come Il Padrino. Che è un capolavoro. Gliene dico un altro: Il Cacciatore. Entrambi hanno vinto l’Oscar. Nessuno dei due però ha alcune caratteristiche previste dalle nuove regole, come l’inclusività delle minoranze. La quota, anche quando nasce come qualcosa di assolutamente nobile e rispettabile, può portare a deliri come questo. L’arte non può mai seguire le quote. Per definizione, deve essere libera».

C’è stato un impatto del politicamente corretto sugli Oscar e sul mondo del cinema? Visto che si cominciano a guardare con occhi diversi i film del passato come per esempio Via col vento o Manhattan

«Non solo c’è stato, ma ha avuto un impatto disastroso. Tutte le istanze del #MeToo hanno un fondamento nobile. Ma un conto è il giudizio morale sulle persone – e nella storia dell’arte e del cinema ce ne sono state di terribili – un altro è il discorso sulle opere. Manhattan racconta che il protagonista (lo stesso Woody Allen) ha una storia con una ragazza molto più giovane. A rileggerlo oggi, alla luce di tutta la vicenda del regista, è inquietante. Ma il film rimane bellissimo. Altro esempio, la condanna a Roman Polanski, colpevole di un crimine come lo stupro di una ragazza di 13 anni dopo averla drogata. Questo lo rende meno grande come regista? Neanche un po’. Ecco il punto. Gli effetti ci sono e molti film sono sempre più fatti col bilancino. Il politicamente corretto si sente e sta facendo danni».

È vero che uno dovrebbe evitare le misure draconiane, però è fuori discussione che ci siano dei problemi all’interno dell’industria cinematografica. Le quote sono un modo per raddrizzare una situazione un po’ squilibrata, o no? L’intento è nobile come ha detto anche lei…

«Possono avere un senso, ma in ambito industriale, non artistico. È giusto che a livello dirigenziale ci siano uomini e donne, anche se poi si rischierebbe di ‘aprire un verminaio’: “E allora perché non omosessuali? Perché non gente di colore?”. Ma a livello artistico non ha più senso. Questa è la differenza. L’arte è libera, non è né politica, né corretta».

Invece delle candidature italiane a questi Oscar cosa ne pensa?

«Siamo felicissimi che ancora una volta quelle definite in modo un po’ brutale “maestranze” – in realtà degli straordinari professionisti – vengano esaltate: il trucco, i costumi. Ci dispiace che nella cinquina non sia entrato Gianfranco Rosi con il suo bellissimo Notturno».

A me ha colpito molto il fatto che fra i cortometraggi candidati agli Oscar ce ne sia uno ispirato alla vicenda di George Floyd, intitolato Two Distant Strangers. Come sta riflettendo il cinema sulla questione della discriminazione razziale?

«Faccio un piccolo salto sfiorando il conflitto d’interessi… Secondo me, il più bello dei documentari che abbiamo presentato alla Festa del Cinema – e che credo possa vincere – è Time. Tratta di un tema simile. Parla della discriminazione razziale e della solitudine di una donna il cui marito viene messo in prigione. Il titolo richiama il tempo necessario a scontare la pena. Quello che è successo a George Floyd è inaccettabile in qualunque Paese civile. Nei giorni scorsi abbiamo visto la condanna di questo poliziotto, contro cui hanno testimoniato altri colleghi. Un evento abbastanza inedito, sul quale il presidente americano Joe Biden ha detto parole belle e giuste. Ovvero che questa vicenda è inaccettabile e l’agente merita la condanna, ma la polizia è un’altra cosa e va rispettata come istituzione. Per riprendere la sua domanda, nel film che lei ha citato (e indirettamente anche in Time, precedente alla vicenda Floyd) ci sono molti echi della questione razziale, che in America è molto sentita».

E invece, noi abbiamo avuto un caso di cronaca, con un videomessaggio di Grillo…

«Sì l’ho visto. Un padre che vede un figlio accusato di stupro capisco possa essere sconvolto. Tuttavia, quello che ha detto, e ciò che implica, è inaccettabile, gravissimo. La tesi secondo la quale non sussisterebbe il fatto perché la ragazza ha aspettato a denunciare, è inaccettabile. E c’è tutto un mondo che appartiene, o è alleato alla sua parte politica, che è stato timido. Invece doveva prendere posizioni durissime. L’ennesimo errore di chi lascia prendere la posizione giusta ai propri rivali».

Ho trovato interessante che fra i nominati a miglior film ci fosse Una donna promettente, il film di Emerald Fennell che tratta proprio questo tema…

«Non avevo pensato al collegamento. Grazie per averlo detto. Sì, film interessante, di qualità. Non so quante chances abbia, non è tra i favoritissimi. Ma Hollywood ci ha abituato a sorprese».

Parlando dei film grandi favoriti, Mank, in testa con 10 nomination. Lei nel suo libro, Il principe del mondo, parla anche di Herman J. Mankiewicz. Ci può dire qualcosa di più su questo sceneggiatore?

«Mankiewicz era un uomo di assoluto talento e autodistruttivo. Alcolizzato – dipendenza che lo ha portato alla morte – era fratello di un grande regista, Joseph Mankiewicz, autore di Eva contro Eva. Uno dei grandi di Hollywood. Ed era un uomo disilluso, disincantato, alle volte cinico. Le sue frequentazioni erano nobili, perché partecipava alla cosiddetta “tavola rotonda”, termine usato per definire i ritrovi dei membri del New Yorker Magazine nei primi anni. In questa “tavola rotonda” si mangiava insieme e il fine era il divertimento, la spensieratezza, non essere noiosi, trovare un modo per distrarsi. Il tutto con uno snobismo ed elitismo insopportabili: si sentivano i migliori di tutti. E Mankiewicz era uno dei protagonisti».

Sempre riguardo Mank, il film sembra richiamare la tesi di Pauline Kael, pubblicata sul New Yorker nel 1971, e poi screditata, secondo la quale la paternità della sceneggiatura di Quarto Potere sarebbe da attribuire interamente a Mankiewicz. E addirittura Kael disse: «Il solo Oscar che Welles abbia mai vinto è per un lavoro che non ha fatto». Lei cosa ne pensa?

«Sì, il saggio si chiamava Raising Kane, ma questa tesi la contesto in modo drastico. È stata smentita da decine di critici e, per quanto Pauline Kael sia stata una critica importante, con belle intuizioni – per esempio è stata la prima ad aver parlato del talento di Steven Spielberg o a elogiare Peckinpah quando non andava di moda farlo – è viscerale. Alle volte mette se stessa al di sopra della recensione, diventa lei personaggio. Nel caso di Quarto Potere, credo sia caduta in questo errore. Ha voluto che si parlasse più di lei che di Orson Welles, pur di creare scandalo e rumore. Una tesi falsa secondo me, o comunque non supportata da verità. Welles è un genio del cinema, lei è una critica interessante, ma ci ricorderemo sicuramente più del regista che di Pauline Kael».

Ci può fare una previsione? Chi vincerà miglior film?

«Forse Il processo ai Chicago 7, ma non lo so. Sono appaiati con il trenta percento di possibilità ciascuno: Nomadland, Il processo e Mank, e per un dieci percento Minari».

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