Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario, edito da Rizzoli, è il romanzo della vita di Walter Pedullà. Della sua vita. Un racconto autobiografico dal sottotitolo “neviano” in cui dalle radici, dalla ionica Siderno, il grande protagonista della nostra cultura letteraria dalla seconda metà del Novecento a oggi ricorda i suoi momenti.
Non solo letteraria, ma “altro, molto altro in verità”, come si legge subito, nella strabiliante pagina ottava, dove Pedullà si riferisce a quella strana circostanza per cui a seguito di un arresto cardiaco ebbe occasione di parlare con qualche medico, “gli diedi in sintesi qualche notizia su di me”, scrive: “ottant’anni appena compiuti” e molto altro a conclusione della breve rassegna della sua attività, tra cui “intensa attività politica dai quindici ai sessantatré anni”, “professore universitario per mezzo secolo” e “consigliere d’amministrazione della RAI per quindici anni, presidente della stessa RAI prima e poi del Teatro di Roma”.
Critico militante dalla voce inesauribile, Interprete d’eccezione, ne Il pallone di stoffa presenta chiavi illuminanti e nuove per comprendere la storia, attraverso le sue proprie esperienze, come la sua lettura del romanzo di Aldo Palazzeschi Il codice di Perelà o la sua spiegazione della teoria dell’“ordine quadro” di Alberto Savinio.
Perché la critica militante, nonostante il suo maestro Giacomo Debenedetti glielo sconsigliasse?
Nel 1959 più di quella già scritta e laureata mi interessava la letteratura da farsi, della quale sentiva la mancanza la cultura politica. C’erano segnali confortanti, la lotta poteva riprendere dopo il fallimento del neorealismo, era tornato di moda l’espressionismo, c’era stata la rivelazione di Gadda, Pasolini, Testori, Arbasino, D’Arrigo. Era questo il nuovo in favore del quale militare, da critico e da professore, e questo ho fatto dal 1959 a oggi. Debenedetti, dopo accanita resistenza, si arrese e mi aiutò a farlo meglio possibile. E un giorno mi disse che avrei potuto raccogliere in volume le più lunghe recensioni, Sono forse il più longevo critico militante sullo stesso giornale: sull’Avanti! ho pubblicato articoli di varia letteratura dal 1961 al 1993, vigilia della chiusura del quotidiano socialista.
Ci sono oggi i critici militanti?
Ci sono, sono tanti e sono bravi, forse più di noi. C’è tuttavia una brutta differenza. Oggi la critica interessa di meno il lettore. Allora leggevano miei articoli lunghi 14-16 cartelle, un’intera pagina di giornale formato lenzuolo. Oggi non lo leggerei nemmeno io. Altri tempi: con la letteratura del trentennio 50-70 si credeva di poter cambiare la società rinnovando strutture e continuando la tradizione del nuovo. Oggi è isolata la letteratura e sono rimasti soli sia gli scrittori che i critici. Non facciamo più storia, non ci sono più le correnti a indicare la direzione. Conta solo il presente, conta solo il piacere della lettura. Nessuno vuole perdere tempo a domandarsi dove va un libro, come è fatto, di quale opera è la diluizione attualizzata. Si riparte tutti insieme, cittadini normali e intellettuali. Tocca ricominciare a militare per una società diversa. Un giorno ci guadarono gli artisti d’avanguardia ma oggi? Siamo in attesa di una sorpresa. Si tenga pronto il critico a coglierla. La storia è incinta: la cultura l’aiuti a partorire. È urgente: si soffoca, si cambi aria. O almeno i linguaggi.
Perché i critici stroncano i libri?
Si stronca un libro per parecchi motivi. Senza contare l’antipatia personale, sono due i moventi principali ed entrambi nobili: il giudizio può riguardare la “politica della letteratura”, cioè l’impatto culturale, o la “bellezza della letteratura”, cioè l’emozione intellettuale che il testo suscita. Le due cose possono coincidere, ma spesso collidono. Per esempio, Francis Bacon, confessò un giorno: «Ho dipinto dei quadri bellissimi ma non funzionano», cioè sono culturalmente in ritardo. Da critico militante ho stroncato anzitutto opere brutte ma ho stroncato anche alcune belle, cui rimproveravo di andare contro il corso progressivo della storia e della società.
Quindi un buon libro deve essere attuale?
Negli Anni Sessanta, quando ero più impegnato dalla parte del neosperimentalismo e della neoavanguardia si tagliava col coltello arrugginito l’odio degli scrittori che adoperavano stili logorati dall’uso. Più tardi sono diventato più indulgente. Avevo fatto mia l’opinione di Heisenberg, per la quale le scoperte scientifiche superate non diventano false ma sono complementari al presente. Come, aggiunse, gli stili letterari. Perciò ho potuto fare insieme il critico militante e lo storico della letteratura, scrivendo, oltre a decine di saggi sul Novecento, monografie su Savinio, Palazzeschi, Gadda e Malerba che forse sarebbero piaciuti al maestro che mi consigliava di dedicarmi ai classici. A proposito ho scritto anche una monografia su Giacomo Debenedetti e opere di teoria letteraria, ho diretto una Storia generale della letteratura italiana e una collana di classici dalle origini ai giorni nostri, “Cento libri per mille anni”. Pure in tali avventure ho militato a favore dei libri bellissimi che mantengono una modernità che non finisce mai di essere attuale, cioè libri complementari al presente.
Qual è la stroncatura da critico che le ha portato più nemici?
Ho giudicato molto negativamente tanti autori che un editore mi propose di scriverci un libro. Ho anche trovato il titolo: Obiezione, vostro onore, per via che si trattava di scrittori che ammiravo per altre opere. Qualche nome: Montale, Gadda, Moravia, Morante, Banti, Landolfi, Ortese, Buzzati, Piovene, Ottieri, Sciascia, Pasolini, Roversi, Calvino, Sanguineti, Bassani, Cassola, Bilenchi, Arpino, Sgorlon. Gli ultimi due si risentirono aspramente, Calvino stroncò la mia stroncatura. Altre volte ho ricordato che il rancore dello stroncato è ben vigoroso e duraturo più della gratitudine dell’elogiato.
Quale ricordo conserva della RAI?
Io mi lego a ogni lavoro fatto per molti anni come la RAI: se non mi interessa profondamente, mi defilo. Si stabilisce un intreccio da cui traggo conoscenza che mi arricchisce in vista di un’altra attività. Così Università, giornalismo, teatro, letteratura e tv formano un tutt’uno intorno a ciò che li accomuna: la ricerca che è conquista ulteriore del mondo e di me stesso. La RAI possedeva qualche connotato che attirava con la sua novità. Io ci sono arrivato quando la televisione era ghettizzata dagli intellettuali, che ci vedevano uno strumento di morte per l’arte e la cultura. Avevo intuito che il nuovo medium sarebbe diventata un’arte come il cinema, che alla nascita aveva suscitato analogo sospetto in una cultura artistica che crocianamente teme l’invasione della tecnica.
La televisione si presta come mezzo per veicolare cultura?
Mentre difendevo lo spazio della Cultura cosiddetta alta (letteratura, teatro, arti figurative, musica, scienze fisiche e scienze umane), combattevo perché fosse più elevato nella lingua e nelle idee il livello della cultura televisiva. Non il teatro nella tv, bensì la tv teatrale, e di seguito la tv musicale, la tv informativa e la tv sportiva, insomma il sostantivo è la televisione, quella che si adatta a ogni tema o linguaggio. In quanto alla Cultura si informassero i cittadini di quanto succedeva nelle arti e scienze che operavano ai confini da dove arriva nuovo sapere. Feci imporre ai TG di dare almeno una notizia dal fronte delle arti. La Cultura non era diventata un’industria che dava lavoro a centinaia di migliaia di artisti e loro collaboratori? Ovvio ripeterlo, ma è bene rimarcarlo: anche la televisione deve verificare quotidianamente l’impatto delle proprie immagini, idee e parole sugli spettatori. Insomma deve essere insonne la battaglia contro la rapida deperibilità dei messaggi.
In quali momenti della sua vita ha pensato “Et ultra” come Perelà che si leva gli stivali?
Ogni volta che ha collassato la cultura per cui mi ero battuto. Il meridionalismo e il neorealismo degli Anni Quaranta e Cinquanta, la civiltà dei contadini e degli artigiani, le crisi dei socialismi, la fine delle avanguardie, il declino della società del benessere, il fallimento delle rivoluzioni politiche, l’agonia dell’intellettuale, il tramonto dell’Europa come baluardo di democrazia, l’attacco allo Stato Sociale, virtù e miserie della globalizzazione. Ogni volta ho cercato il punto di vista da cui ripartire verso una nuova e poderosa avventura collettiva. Non basterà tenere i piedi per terra, serve una fantasia più alta: stavolta bisognerà sollevarsi tanto da vedere tutto il mondo con un solo colpo d’occhio. Quando vedete tutto nero, non sempre dipende dal mondo, spesso vuol dire che sul nostro occhio è la calata la cateratta. Parola di Marcel Proust.
Che vuol dire che il cerchio e il quadrato sono incompatibili?
L’idea mi è arrivata attraverso Savinio che opponeva alla ripetitività contemplativa del cerchio il sorprendente poliprospettivismo dell’“ordine quadro”. Nelle mani del Maya Signor di Palenque la pallina simboleggia la morte, il dado la vita. Il globo avanza punto dopo punto in una corsa che riporta all’inizio; il cubo mostra sei facce dove la successione è casuale. Il cerchio non prevede scarti, il cubo cambia a ogni lancio punto di vista e punteggio.