«Il Cile mi sembrava l’unico Paese muto dell’America Latina. Tutto di un colpo, tra morti e feriti, era invece colorato e pieno di musica». È un’esplosione di suoni, festosi e rabbiosi insieme, il racconto dell’Estallido social cileno, anche nelle parole di Manuele Franceschini, regista di No tenemos miedo, documentario sulle proteste scoppiate a Santiago nel 2019.
Gabriel Boric è il nuovo presidente del Cile, simbolo di una rivoluzione generazionale che si è imposta su una visione politica orientata al neoliberismo. La sua vittoria è in perfetto equilibrio con la stesura della nuova costituzione, che romperà i legami con quella antecedente, redatta ai tempi di Pinochet.
All’indomani delle elezioni, il Cile si presenta però come uno Stato non solo diviso, ma polarizzato. La maggior parte della popolazione non ha fiducia nelle istituzioni, mentre la partecipazione dell’elettorato di destra è forte e radicata. I Mapuche, nativi americani confinati a sud e da sempre in lotta con i coloni, rifiutano le autorità e non intendono scendere a compromessi con il governo. Sono in prima linea durante le proteste, ma diffidenti nei confronti delle istituzioni: i loro stessi territori, dallo spoglio dei voti, risultano di destra, essendo i proprietari terrieri gli unici votanti.
L’affluenza registrata lo scorso 19 dicembre, pari al 51%, è un evento eccezionale, senza precedenti: i cileni, disillusi da gestioni fallimentari della res publica, non si recavano alle urne da decenni. Questo incremento è dipeso dal voto di coloro che, pur distanti dalla vita politica, hanno scelto il giovane leader della sinistra in vista della stesura della nuova costituzione.
Il 18 ottobre 2019 dopo un aumento irrisorio del prezzo del biglietto della metro, sono iniziate le opposizioni alla spinta neoliberista che riempie da tempo le tasche di ricchi e imprenditori a danno dei ceti poveri: non sono stati i trenta pesos in più, ma i trenta anni di cattiva gestione politica. Sono soprattutto i giovanissimi, come Javier e Lorenzo, oggi ventunenni, ad aver scelto la via delle dimostrazioni in piazza, portandone spesso le cicatrici. Hanno insegnato ai loro genitori l’importanza delle proteste. «Non posso biasimarlo, aveva paura! Il regime faceva sparire gli oppositori politici» dice Javier parlando di suo padre.
A tal proposito Alessandro Cinque, fotografo che ha catturato immagini paradigmatiche della protesta, ricorda anche il coraggio delle donne che «erano dietro la Primera Lìnea: davano assistenza sanitaria ai feriti e distribuivano cibo e acqua».
La Primera Lìnea era il muro di testa delle proteste, più violento ma necessario a fare da scudo ai manifestanti pacifici. Ha combattuto spaccando marciapiedi e lanciandone i pezzi, al grido di «vivere con dignità o morire». I carabineros, al contrario, erano dotati di armi sofisticate e non esitavano a usarle per reprimere le insurrezioni. «Avevano ordine di sparare agli occhi» ricorda Manuele Franceschini.
Da questo punto di vista Boric è portavoce dei giovani che hanno protestato, ma non è uno di loro. «Lui è un politico, i componenti della Primera Lìnea non lo riconoscono perché non vogliono istituzionalizzare il movimento» dice Javier. Tutto, dal plebiscito costituzionale al sorprendente ballottaggio contro la destra di José Antonio Kast, rappresenta tuttavia un «percorso in armonia con la vittoria del giovane presidente», sostiene Tomás Mosciatti, cronista di Radio Bìo-Bìo e commentatore politico. Predire le sorti di questa nazione, guidata da un nuovo governo, è prematuro. Solo una cosa per ora è certa: Chile despertó. Il Cile si è svegliato.
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