«Sorrentino applica la formula che ha reso possibile la maggior parte degli Oscar vinti dall’Italia. Il suo cinema funziona per l’Academy perché riesce a non tradire la sua appartenenza anche in un’ottica internazionale». Steve Della Casa, storico conduttore di Hollywood Party su Rai Radio 3 e da quest’anno di nuovo direttore del Torino Film Festival, commenta così la notizia della nomination a È stata la mano di Dio.
Dopo aver sperimentato la produzione in lingua inglese, con This Must Be the Place e le due serie HBO, The Young Pope e The New Pope, il regista torna alle origini, alla sua Napoli, abbandonata dopo l’esordio con L’uomo in più (2001). È stata la mano di Dio è un percorso a ritroso, nella memoria e nel trauma personale, attraverso cui è possibile rileggere l’intera filmografia di Sorrentino ed estrarne nuovo senso.
Nell’urlo finale di Fabietto, in quel non me li hanno fatti vedere, riferito ai genitori appena persi, prende forma tutto il cinema onirico e immaginifico di Sorrentino. L’atto del guardare diventa creazione, mondi nuovi da plasmare per sostituire una realtà triste, che non piace più.
Quel cinema diventato rifugio si mostra in questo film in tutte le sue sovrastrutture, rivelando al di sotto la sensibilità e l’autenticità di un autore da sempre giudicato invece ampolloso e barocco, o troppo simile a Federico Fellini.
«Lo ricalca, sì, ma fino a un certo punto», secondo Della Casa. «Il linguaggio che usa però è contemporaneo, compie un ammodernamento dell’immaginario che non è semplice citazionismo meccanico»
È stata la mano di Dio è eccentrico, fuori dal centro e fuori dal canone di Sorrentino, «è un film che in America è stato accolto bene, considerando sempre che gli Oscar sono premi assegnati dall’industria e non dalla critica. Sorrentino ha trovato il modo di esportare il made in Italy anche nel cinema», questa volta supportato anche dal colosso Netflix, che ne ha curato la distribuzione in quasi duecento paesi», arrivando dove gli esercenti tradizionali non sono riusciti.
La ristretta finestra temporale di uscita al cinema, tuttavia, ha alimentato ancora la polemica irrisolta fra la sala e lo streaming. «Una non esclude l’altro, ma serve più attenzione e più cura per la sala. Se i Lumière hanno battuto Edison è perché hanno proposto un’esperienza di visione collettiva e condivisa. Oggi è diverso, lo streaming sembra la rivincita di Edison e del cinetoscopio», di una visione individuale che spezza il pubblico in tante monadi.
Nel racconto di un’esperienza intima e personale, Sorrentino ha però incluso anche questa contraddizione, riuscendo a confezionare un’opera che funziona sia sul piccolo sia sul grande schermo e che parla allo stesso tempo al singolo spettatore, al suo mondo interiore, e a una collettività universale.
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