Sono le nostre azioni a definire ciò che siamo. Ma cosa sono le azioni se non il continuo passaggio da uno stato all’altro? Un passaggio che diviene effettivo nel momento in cui queste azioni subiscono una codifica “rituale”, specialmente quando si tratta di scelte forti. È la storia di Giorgio, un ragazzo di 23 anni che nel 2018 ha deciso di entrare nel seminario di Chieti, in Abruzzo, e affrontare la “transizione” necessaria per diventare sacerdote. Nonostante il calo delle vocazioni in Italia, che dal 2010 al 2019 ha visto diminuire i seminaristi da quasi 3000 a poco più di 2000, ci sono ancora migliaia di ragazzi che compiono questa scelta ogni anno, guidati certamente da una fede profonda, ma anche dalla volontà di fare la differenza nella propria comunità attraverso il nuovo ruolo che si va ad assumere. Non a caso, la “conferma” della vocazione di Giorgio è arrivata mentre faceva il volontario dell’Unitalsi, l’associazione che si occupa del trasporto dei malati al Santuario di Lourdes, marcando da subito un legame strettissimo tra fede e impegno sociale.
Un percorso non certo privo di sacrifici. «Il più duro», racconta Giorgio, «è la separazione dalla famiglia». La “separazione” è stata individuata più di un secolo fa dall’antropologo Arnold Van Gennep come la prima fase cruciale dei riti di passaggio. Ma nel caso del seminario non si tratta di un distacco repentino, perché gli stessi educatori desiderano che i ragazzi ponderino bene una scelta destinata a cambiare la loro esistenza. Il primo anno è infatti un “anno propedeutico” che prevede un distacco “soft”. Durante la settimana si fa esperienza di vita comunitaria, ma per il fine settimane e le feste si è liberi di tornare a casa. «Qualcosa che per i sacerdoti più anziani è inconcepibile», fa notare Giorgio, sottolineando il distacco con la più dura disciplina che caratterizzava il seminario nelle generazioni precedenti.
Terminato l’anno di discernimento, i seminaristi entrano nel biennio filosofico e a seguire nel triennio teologico, in cui, oltre alla dimensione spirituale, vengono curate anche quella intellettuale, attraverso gli studi accademici, e umana. Alla fine del primo anno teologico si ha l’effettivo passaggio rituale con la cerimonia dell’Ammissione agli Ordini Sacri, in cui i ragazzi sono chiamati a confermare la propria scelta. Durante questo periodo la “separazione” diviene molto più sentita, con rientri limitati alle feste, alla fine degli esami o in caso di lutti. «E devono essere lutti stretti, già per un amico è difficile avere un permesso», dice Giorgio con un velo di tristezza, ma subito spiega il perché di questa durezza: «So che può sembrare qualcosa che va contro il lato umano, ma bisogna entrare nell’ottica che ci si tratta di una scelta di vita in cui ci si prepara ad essere di tutti». Questo è anche il periodo in cui si comincia a vivere la dimensione pastorale, il momento in cui i seminaristi vengono assegnati ad una parrocchia diversa da quella di provenienza per entrare in contatto con la comunità di fedeli. Giorgio, infatti, originario della provincia di Teramo, sta svolgendo il servizio presso la Parrocchia dei Santi Angeli Custodi di Pescara.
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Ed è qui che comincia la fase che Van Gennep avrebbe chiamato di “riaggregazione”, in cui i giovani aspiranti sacerdoti possono cominciare ad avere un ruolo attivo per far sì che attraverso di loro sia la Chiesa stessa a cambiare volto. Giorgio racconta che se dovesse individuare la principale differenza tra la formazione seminariale di trent’anni fa e quella attuale starebbe proprio nella centralità della dimensione umana. I giovani seminaristi sono seguiti non solo da un educatore e da un Padre Spirituale, a cui possono confidare i propri dubbi più intimi, ma anche da una psicologa che tiene incontri di gruppo e sedute individuali su tematiche concordate.
«L’obiettivo è quello di tenere sempre di pari passo l’uomo e il sacerdote», dice Giorgio, anche «affrontando senza nasconderli quei problemi umani, specie con il lato affettivo e sessuale, da cui derivano alcune storture della Chiesa di oggi». Difficile non cogliere il riferimento a due delle questioni più spinose per la Chiesa del 2022. La prima è il rapporto con la comunità LGBTQ+, con cui la Chiesa deve dialogare nonostante le divergenze. La seconda, più grave, sono i numerosi casi di abusi su minori che hanno investito alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche. Ma proprio per far sì che episodi del genere diventino sempre più marginali bisogna partire dai singoli. «Solo dopo aver affrontato questi problemi all’interno di sé stessi si possono affrontare insieme ai giovani, attraverso un rapporto diretto con quelli che alla fine sono dei coetanei, che non avrebbero la stessa interazione con un prete di settant’anni».
Il prete infatti non è più un notabile, una figura di riferimento a sé stante, e non deve limitarsi ad una celebrazione che se rimane chiusa in sé stessa perde di senso. Al momento del rientro in società il compito del sacerdote è curare le relazioni perché «la Chiesa non sono le pareti, ma le anime», anime che hanno necessità e sensibilità completamente diverse.
Il “rito di passaggio” a cui si va incontro in seminario diviene dunque una transizione umana e sociale che ha il suo cuore nell’ultimo momento, quello della riaggregazione alla società, in modo che anche l’istituzione Chiesa possa attraversare un cambiamento che la porti più vicino al sentire di oggi. Un passaggio che permetta all’uomo-sacerdote di tornare a dialogare in maniera nuova con la stessa comunità di partenza. Questo anche attraverso un’evoluzione nel modo di comunicare che non può non passare attraverso i social. «Se usati bene sono finestre sul mondo e possono diventare uno strumento di evangelizzazione», dichiara Giorgio, e oggi nelle celle del seminario non mancano pc e smartphone.
Da questo punto di vista la pandemia è stata certamente uno spartiacque, ma la sfida ora è rendere strutturali questi cambiamenti così da permettere alla Chiesa di tornare ad essere un punto di riferimento sempre più solido, capace di dialogare con tutte le parti della società, sull’esempio portato dallo stesso papa Francesco.
Un balzo nel futuro dunque per tornare, rinnovata, alla forza del passato.
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