«È l’ennesima presa in giro che, come associazione dei consumatori, non siamo più disposti ad accettare». Se da un lato Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, la definisce una pratica scorretta messa a punto dai produttori a danno dei consumatori, dall’altro c’è chi, invece, la ritiene un effetto collaterale dell’esigenza delle aziende di lottare contro la cattiva alimentazione. Ma la shrinkflation (neologismo dato dalla crasi tra le parole “to shrink” – restringere – e “inflation” – inflazione) si presenta con sembianze che mettono d’accordo tutti: un aumento del prezzo di determinati prodotti mascherato dalla diminuzione della quantità degli stessi all’interno delle confezioni.
Sebbene si tratti di un fenomeno che di recente ha infiammato il dibattito pubblico, la shrinkflation non si è manifestata soltanto negli ultimi mesi. «In passato corrispondeva a momenti in cui il costo di produzione aumentava: in particolare, per non far impattare – almeno dal punto di vista visivo – la tassazione sui prezzi, i produttori riducevano il contenuto delle confezioni», spiega Dona, precisando come questa pratica sia diventata molto più frequente negli ultimi anni, accentuata dal caro energia e dal conflitto in Ucraina. Ma se questi sono «fenomeni troppo recenti per essere stati la causa di questa nuova ondata di shrinkflation», il portavoce dei consumatori afferma come essa sia semplicemente dovuta all’interesse delle aziende a massimizzare i propri profitti.
Detersivi, biscotti, merendine e bibite sono solo alcuni dei prodotti che hanno subìto questa anomala riduzione del formato. Pur essendo ormai «esperienza comune trovare il torrone dell’anno precedente nella stessa identica scatola, ma con meno prodotto all’interno», molte aziende giustificano questa scelta con una sana preoccupazione per la salute dei consumatori. Un punto di vista condiviso dalla dottoressa Antonella Borrometi, esperta di alimentazione per Altroconsumo, secondo cui la riduzione delle porzioni di alcuni alimenti, come ad esempio le barrette di cioccolato, è legata all’esigenza di fornire un apporto calorico più basso per sostenere la lotta all’obesità e promuovere uno stile di vita più sano.
Ma se le aziende aspirano a “educare” i consumatori a mangiare meno, non è chiaro il motivo per cui anche un flacone di ammorbidente non sia mai colmo fino al collo. «Questo potrebbe essere un discorso legato all’overpackaging, un uso eccessivo di materiale di confezionamento rispetto alla reale necessità», precisa la dottoressa Borrometi, «che è anche un problema ambientale perché un produttore sta utilizzando troppa plastica per una quantità di prodotto non congrua». Una pratica che in alcuni Paesi come la Germania è stata regolamentata dalla VerpackG, una legge sugli imballaggi entrata in vigore dal 1°gennaio 2019 che mira a creare un sistema di smaltimento o riciclo dei rifiuti sostenibile.
Nonostante l’Italia sia ancora lontana dal seguire l’esempio tedesco, «la buona notizia», dichiara Dona, «è che l’anno scorso è stata istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla tutela dei consumatori, che nel decreto istitutivo include anche la grammatura dei prodotti». Ma il dubbio su un eventuale aggiustamento dei prezzi nel futuro rimane ancora e ci si chiede se modificare il formato dei prodotti possa essere una soluzione concreta anche per la shrinkflation.
Al momento, il consumatore si trova di fronte ad un bivio: continuare a comprare i suoi “prodotti del cuore” oppure cambiare le proprie abitudini? Secondo la dottoressa Borrometi, c’è un solo modo per ridurre l’impatto della shrinkflation sullo stile di vita dei consumatori e sulle loro tasche. «Confrontare i prodotti, facendo attenzione al prezzo al chilo o al litro e, per i prodotti ai quali si è maggiormente affezionati, cercare di memorizzarne il formato per rendersi conto di eventuali cambiamenti».
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