«Bisogna sempre aver paura quando si parla di contrazione rispetto ai diritti umani e bisogna avere ancora più paura quando ciò avviene sui corpi, in questo caso delle donne». Emiliana De Blasio, coordinatrice scientifica del CMDI – Centre for Media and Democratic Innovations della Luiss, commenta così il Bill 612 del Senato dell’Oklahoma. Un divieto quasi totale del diritto all’aborto che segna «il più grande passo indietro dei diritti civili e delle donne in Occidente dagli anni Settanta a oggi». Un veto che si applica senza eccezioni, anche in casi di stupro, permettendo l’intervento solo in situazioni di grave pericolo per la gestante.
Centomila dollari di multa o dieci anni di prigione sono le pene previste sia per i medici che eseguono l’operazione sia per le donne che ne fanno ricorso. La norma, presentata il 5 aprile, potrebbe entrare in vigore già dal 26 agosto, dopo la firma del governatore dello Stato, il conservatore repubblicano Kevin Stitt.
L’Oklahoma è solo l’ultimo di una serie di Stati americani a maggioranza repubblicana che hanno ristretto l’accesso al diritto di interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Da qualche mese era diventato anche la meta più vicina per tutte le donne texane il cui diritto era stato limitato dall’Heartbeat Law, che impedisce l’intervento dopo le sei settimane, ovvero dal primo battito cardiaco. «Questi viaggi ora sono finiti, al di là del fatto che nel 2022 sia allucinante dover attraversare i confini di uno Stato per poter accedere a un diritto».
A rendere possibile quest’onda conservatrice è l’assenza di criteri univoci di applicazione della legge. Esiste infatti solo una serie di precedenti giuridici, come il celebre Roe vs Wade (1973) che istituisce la libertà di scelta della donna ma permette a ogni singolo Stato degli USA di regolamentare in autonomia l’accesso al diritto. Il caso del Texas, in cui si può far ricorso all’IVG solo entro un mese e mezzo, è emblematico in questo senso.
«Si tratta di un’onda che ha investito gli Stati Uniti già da qualche anno» e che si è resa esplicita nella nomina da parte di Trump di tre giudici ultraconservatori alla Corte Suprema, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Barrett, da cui è anche dipesa la bocciatura del ricorso contro la legge texana, a cui anche il Presidente Biden si era pronunciato contrario, perché troppo restrittiva.
Attraverso la promulgazione di leggi estreme, che arrivano fino alla Corte Suprema, «i Repubblicani cercano di tenere alta l’attenzione pubblica sui loro valori e sugli argomenti fondamentali della loro politica». È una strategia politica che prosegue grazie alla «doppia morale statunitense, liberale e puritana», ma che prima o poi dovrà fare i conti l’opposizione del Paese reale, al di là della maggioranza nelle istituzioni. «Questa ondata continuerà ed influenzerà altri Paesi soltanto nella misura in cui questo “gioco a cancellare i diritti” non verrà sanzionato, dall’elettorato o dall’opinione pubblica».
Di fronte a leggi come quella dell’Oklahoma si può parlare infatti di «svolta autoritaria, ossia di progressiva cancellazione di diritti che già esistono e che vengono resi inaccessibili». Non si tratta solo di avere idee diverse e personali sull’aborto, ma di fare «passi indietro rispetto a normative vigenti, infrangendo la laicità dell’idea di Stato occidentale e la separazione tra scelta individuale e problema etico»
L’aborto in Italia
La situazione statunitense non è un caso totalmente isolato dal resto del mondo “liberale”. In Italia, per quanto il diritto all’aborto, entro le prime dodici settimane, non venga realmente messo in discussione, le spinte anti-abortiste sono sempre state forti. Il motivo risiede anche nella modalità che ha portato al riconoscimento di questo diritto.
L’aborto legale nasce da campagne personali di politici a seguito di «eventi contingenti, non da veri e propri movimenti sociali dal basso». È il caso dell’allora militante radicale Emma Bonino, le cui azioni e campagne hanno portato all’entrata in vigore della legge 194.
È del 1976 una delle sue più note iniziative pubbliche, quando dopo l’incidente nella fabbrica di Seveso chiese e ottenne che lo Stato italiano permettesse alle donne esposte alla diossina di abortire in un Paese in cui l’intervento fosse legale, la Gran Bretagna.
Il passo verso il riconoscimento del diritto in Italia fu breve, «il vero problema è che sia ancora adesso concepito come una forma di medicalizzazione, più che come una vera e propria tutela del diritto di libertà delle donne»
La questione dell’aborto in Italia è indicativa della discrasia presente nel nostro Paese tra norme e applicazioni effettive. Il diritto è sancito dalla Legge 194 del 1978 e riconfermato dal fallimento del referendum abrogativo del 1981, eppure spesso è limitato dall’obiezione di coscienza. «Da una parte c’è la normativa che tutela questo diritto e dall’altra c’è il diritto a poter esercitare la professione medica secondo la propria etica. Creare però un diritto e poi non dare la possibilità a tutti di accedervi è una grave limitazione, che avviene perché non c’è cultura verso le donne»
Lo stigma esiste ancora e rende necessario «insistere sul cambiamento della cultura istituzionale, dove è il vero problema». Lo dimostra anche il recente caso politico sorto con lo stanziamento di 400 mila euro da parte della Regione Piemonte per contrastare gli aborti dovuti a “motivi economici”. Finché un diritto esiste, tuttavia, più che dissuadere le donne dal poterlo esercitare «bisogna perseverare affinché le istituzioni aprano la propria mentalità all’inclusione»
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