Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul nostro periodico di aprile. Potete leggerlo qui.
Si chiama Bill Gates, ma non è un miliardario e non sviluppa software. È stato un difensore, ha giocato per 13 anni nel Middlesbrough. 333 partite da professionista, infinite sessioni d’allenamento, in ognuna delle quali colpiva «un centinaio di palloni di testa» per allenare il suo fondamentale migliore. A 29 anni il traguardo più atteso: la promozione in Premier League. In cui, però, non ha mai giocato: dopo tutte quelle pallonate le emicranie erano diventate insostenibili, così ha detto basta.
Da quel giorno in poi, Gates non ha vissuto chiedendosi se il problema sarebbe peggiorato, ma quando. La diagnosi peggiore è arrivata nel 2014: Encefalopatia Traumatica Cronica (ETC). «Un viaggio orribile», nelle parole di Judith, la moglie. «Una montagna russa di deterioramento cognitivo, diventato anche fisico da quando il suo cervello non riesce più a dire al corpo cosa fare».
È proprio per evitare che altre famiglie vivano lo stesso inferno dei Gates che Judith ha creato Head for Change, associazione che lavora per diminuire l’incidenza delle malattie neurodegenerative (come demenza, Alzheimer o ETC) causate dallo sport professionistico. In maniera particolare, quelle riconducibili ai microtraumi sofferti per colpi di testa e scontri di gioco, che accumulandosi nel corso di una carriera possono presentare un conto salato nella terza età.
La più forte opera di sensibilizzazione di Head for Change è arrivata pochi mesi fa: la prima partita della storia in cui i colpi di testa erano proibiti dal regolamento. Il calcio d’inizio l’ha dato Bill, uscito dal campo in un’ovazione mentre andava alla ricerca di un bacio della moglie. Entrambi spazzati via in un attimo dall’assenza di memoria a breve termine. In campo, altri ex calciatori che supportano la causa. Uomini nei loro quaranta che «quando iniziano a dimenticare i primi numeri di telefono vivono nel terrore di essere entrati in un tunnel senza uscita».
E il calcio senza colpi di testa? Com’è? «Più tecnico, tatticamente raffinato», assicura Judith Gates. «Nel primo tempo li abbiamo permessi solo in area, nel secondo via anche lì. Si è vista la differenza: il gioco era molto più ricercato». In fondo, come disse Bryan Clough: «Se Dio avesse voluto che giocassimo sulle nuvole, l’erba l’avrebbe messa lassù».
Non è un caso che un’iniziativa del genere nasca nel Regno Unito. In Italia non se ne parla, ma quella delle malattie neurodegenerative fra gli ex calciatori inglesi sembra «un’epidemia» — nelle parole Judith Gates. Oltre il caso di Bill, il Paese negli ultimi anni sta vedendo cadere buona parte della squadra campione del mondo nel 1966 e del Manchester United campione d’Europa nel ’68 per colpa della demenza.
Diversi studi scientifici vanno nella stessa direzione: da Bill Gates a Sir Bobby Charlton, la colpa sarebbe innanzitutto degli scontri fra il cervello e la scatola cranica prodotti dalle continue pallonate. Il fatto che si parli di coetanei, però, non deve far pensare che il problema sia generazionale, quindi superato. La ragione è che tali malattie si sviluppano in un arco di circa 30 anni, e studi recenti stimano che la minaccia sia oggi presente tanto quanto lo era negli anni ‘70.
I colpi di testa e i rischi per la salute
Nello specifico, il Glasgow Brain Injury Research Group ha calcolato che, per colpa delle pallonate, le probabilità di sviluppare malattie neurodegenerative per ex calciatori siano fino a cinque volte superiori rispetto a quelle della popolazione generale. Una stima che si alza per i difensori, come Gates, più sollecitati nel gioco aereo.
Per Judith Gates questa è già una «prova schiacciante e attendibile» della pericolosità dei colpi di testa. Non tutti, però, sono dello stesso avviso. Fra gli scettici c’è anche una voce autorevole come quella di Damiano Tommasi, ex presidente dell’Assocalciatori e membro del board di Fifpro, il sindacato mondiale dei calciatori. Secondo lui «non è così chiara la solidità scientifica» sulla quale si basano questi studi. «Non dico che parlare di collegamento diretto con le malattie neurodegenerative sia una forzatura, ma…».
«Di certo il buon senso dice che tanti colpi di testa non possono fare bene, come accade per un pugile o per un rugbista con gli scontri di gioco», continua. D’altro canto, per stabilire un rapporto di causa diretto servirebbero dati più sostanziosi e stabili nel tempo, che possano eliminare una grossa quantità di variabili e bias (cambio nei materiali dei palloni, evoluzione del gioco, abitudini di vita…).
Per farlo, però, «dovremmo studiare il fenomeno in laboratorio, che è chiaramente impossibile», controbatte Gates. Il rischio, avverte, è che per aspettare uno studio formalmente inattaccabile si perda di vista la salute di intere generazioni di giocatori, quando ci sono già elementi per sostenere che sia in pericolo.
Il protocollo inglese
In ogni caso, «l’obiettivo di Head for Change non è proibire i colpi di testa». E allora mentre qualcuno studia come visori e realtà virtuale possano sostituire la frustata al pallone, ben venga il protocollo della Premier League, che quest’anno ha limitato a 10 a settimana il numero di colpi di testa di «forza superiore» (cioè quelli che incontrano passaggi partiti da 35 metri di distanza o più) effettuabili in allenamento. In più, sono state introdotte sostituzioni extra per tutti nel caso di commozioni cerebrali, per disincentivare la permanenza in campo di un giocatore infortunato.
Queste regole, però, presentano due criticità. La prima è che non sappiamo quale sia un limite «sano» di colpi di testa per uno sportivo. Ciò significa che, sviluppandosi la malattia nel lungo periodo, «se oggi stiamo facendo tutto bene, per altri 30 anni avremo comunque casi di demenza senile fra i giocatori», avverte Gates.
La seconda è che c’è chi non si attiene al protocollo sapendo che l’applicazione non è controllata. Come l’ex allenatore del Tottenham, Nuno Espirito Santo. «Magari finirò nei guai, ma io non mi metterò a contare i colpi di testa. Fanno parte del gioco», aveva detto. «Non sono naive — risponde a distanza Judith Gates — riconosco che un manager vorrà comunque allenare un fondamentale così importante, ma riconosco anche che l’allenatore in questione poi è stato licenziato».
Frecciatine a parte, le misure inglesi potrebbero essere solo cosmetiche, ma hanno il merito di far luce sul fenomeno. Lo sostiene anche Tommasi: «Non sono perfette, ma sono sicuramente di buon senso». Perché non ci pensiamo anche in Italia, allora? «Sicuramente delle limitazioni andrebbero introdotte nelle scuole calcio, dove all’estero un tocco di testa è equiparato ad un fallo di mano. Ma da noi non c’è una preoccupazione a riguardo, non è un tema di attualità».
In effetti, in Italia i casi conosciuti di demenza negli ex calciatori sono molti di meno. «Questo è difficilmente spiegabile», continua Tommasi. «Sembra quasi che alcuni fenomeni colpiscano solo alcuni Paesi e non altri. Noi, ad esempio, abbiamo avuto molti più casi di Sla che da altre parti. Questi, però, non sono riconducibili ai traumi».
«I giocatori non sanno cosa rischiano»
Che ci siano prove scientifiche «schiaccianti» o meno, che sia l’Italia in ritardo o il Regno Unito troppo prudente, in entrambi i Paesi c’è una grossa mancanza da colmare. «Manca il consenso informato», avverte Judith Gates. «I giocatori sono liberi di decidere se barattare i guadagni a breve termine per il rischio a lungo termine, ma non decidono davvero, perché nessuno gli dice cosa rischiano colpendo decine di palloni di testa al giorno».
«C’è una tensione fra quello che è il beautiful game e il prezzo che i giocatori devono pagare. Chiediamoci: sono solo merci per il beautiful game o sono esseri umani? Ed è vero che guadagnano tanto, ma quale cifra è abbastanza grande quando hai perso la testa? Mi chiedo, e questa è l’ultima domanda, se questa sia una religione o un gioco creato dall’uomo. Perché se la risposta è la seconda, non dovrebbe essere difficile cambiare le regole per il bene di tutti». Il dibattito è aperto.