Avete presente Moneyball? Dimenticatelo. Nell’era in cui la tecnologia rivoluziona le nostre vite in tempi record, il film sull’impresa degli Oakland A’s, che grazie ai dati hanno costruito dal nulla una squadra di baseball vincente, è già diventato obsoleto. Dai primi 2000 ad oggi, infatti, la quantità di statistiche che gli atleti producono si sono moltiplicate, e quello a cui potremmo avere accesso oggi può darci informazioni molto più preziose di velocità, posizioni medie o rendimento.
Si tratta dei dati biometrici, quelli che raccontano lo stato biologico degli atleti. Parliamo, ad esempio, di battito cardiaco, temperatura corporea, ossigeno nel sangue. Ma anche di quanto si è dormito durante la notte o, in alternativa, quello che il giocatore ha fatto invece di dormire. In poche parole, i dati biometrici sanno tutto di noi e sono capaci di raccontare praticamente tutto quello che facciamo 24/7. «Una barca di informazioni, che nel caso degli atleti potrebbero valere una barca di soldi», se preferite la definizione di Kimberly Houser, professoressa di diritto delle nuove tecnologie all’Università del Texas.
In effetti, negli Stati Uniti, televisioni e soprattutto agenzie di scommesse sarebbero disposte a fare all-in per avere accesso a questi dati. «Nulla più di queste statistiche può dare la misura di quanto sia in forma un giocatore prima di una partita, e conoscendole i bookmakers possono stabilire delle quote per loro molto più vantaggiose. Avere accesso a informazioni così dettagliate può fare la differenza fra chiudere un anno in perdita e aggiungere diversi punti percentuali ai propri margini di profitto», spiega John Holden, esperto di diritto sportivo della Oklahoma University.
Ma questi dati li vorrebbero anche gli scommettitori. Il sogno degli accaniti è aprire il sito di scommesse, leggere che «il giorno prima della partita Messi ha dormito sette ore e 32 minuti. E quando dorme più di sette ore ha il 70% di probabilità di segnare più di un gol» e scommettere di conseguenza. O, ancora peggio, scoprire grazie al gps che alle tre di notte Messi in realtà era in discoteca, o che stava vivendo un momento intimo con sua moglie, quindi scommettere sugli avversari. Quando si dice che questi dati sanno tutto, è in senso letterale.
Uno scenario distopico reso possibile dai cosiddetti wearables, i dispositivi indossabili (il più famoso è l’Apple Watch) che tengono d’occhio le nostre attività. E che arrivano a sapere così tanto su di noi che Google ha sborsato 2,1 miliardi per comprare Fitbit. Non tanto per i suoi smartwatch, ma per la mole di informazioni che questi raccolgono sugli utenti, regalategli quando questi pigiano il tasto «Consento» dopo aver fatto finta di leggere l’informativa per la privacy.
Gli atleti sono fra i primi utenti al mondo di queste tecnologie. Li indossano costantemente perché monitorare i loro dati biometrici è utile per migliorare prestazioni, affinare cure mediche e personalizzare allenamenti. Ma fino a pochissimo tempo fa nessuno credeva che tutti questi dati potessero avere un altro uso. E infatti oggi il primo ostacolo alla loro commercializzazione (per ora solo potenziale) è che la legge in materia è molto confusa, se non assente.
I contratti che stipulano gli utenti con i wearables, infatti, permettono la vendita dei loro dati a terze parti. Ma senza condividerli al pubblico, né rilevando l’identità del proprietario, come si vorrebbe richiedere agli atleti. «Per quello servirebbe una triangolazione dei contratti. I giocatori dovrebbero aderire ai termini di utilizzo dei dispositivi, come già fanno. Questi, per vendere i dati, avrebbero bisogno di un’intesa con i campionati, i quali per dare il via libera avrebbero a loro volta bisogno di un accordo collettivo con i giocatori. È complicato, ma il mercato spinge perché accada», ragiona Houser.
Chiave in ciò dice Houser è il concetto di “accordo collettivo” degli atleti, comune in un’America in cui lo sport gode di una cultura sindacale molto più radicata che in Europa. «È un processo farraginoso. Per questo serviranno 10 o 20 anni prima che questi dati vengono messi in commercio», secondo Holden.
Dato che in Europa i giocatori sono più indipendenti dai sindacati, è proprio nel Vecchio Continente che potremmo sapere per primi se Leão o Lautaro hanno fatto serata la notte prima del derby. «Il vostro sistema legale vi dà un vantaggio. Chissà che non siano proprio delle squadre di calcio europee, con qualche accordo speciale, ad essere le prime a mettere in vendita i dati dei loro giocatori». Ma che prezzo accetterebbero, loro, per sacrificare completamente la propria privacy? Troppo presto per dirlo. Intanto, meglio prepararsi a sacrificare i festeggiamenti in discoteca.
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