«Mi piace vedere, nello sport, il sacrificio dell’atleta. Quell’atleta che gli dedica tutta la propria vita, che rinuncia alla discoteca, alla cenetta, a fumarsi una sigaretta, ma che, quando alza le braccia al cielo, le alza in segno di vittoria e non perché ha bluffato [con il doping] nei confronti degli avversari. Perché, prima di bluffare con loro, sta bluffando con sé stesso», così Vito Taccone commentava il momento in cui un altro grande campione del ciclismo, Eddy Merckx detto “il Cannibale”, risultò positivo al test anti-doping durante il Giro d’Italia del 1969.
Forgiato dalla durezza delle montagne marsicane, Taccone aveva un modo di intendere il ciclismo che non si discostò mai dal suo modo di essere: sanguigno, verace, combattivo e coraggioso, che lo portò ad evadere da una vita che con lui non era stata particolarmente generosa. Nato ad Avezzano (L’Aquila) nel 1940 in una famiglia molto umile, dove avere una tavola imbandita non era per nulla scontato a causa della miseria lasciata in eredità dal terremoto del 1915 e dalle due Guerre Mondiali, Taccone trovò nella bicicletta prima un mezzo di trasporto fedele con cui portare il pane nelle case avezzanesi, poi un modo per riscattare sé stesso e la sua terra d’origine.
La tappa Bari-Potenza del Giro d’Italia, il Giro di Lombardia e il Gran Premio della Montagna sono solo alcuni grandi successi che nel 1961 lo trasformarono nel “Camoscio d’Abruzzo”. «Il ciclismo rispecchia pienamente la sua arrampicata verso la sopravvivenza e la sua voglia di rincorrere le circostanze per uscire dalla miseria nella quale era nato suo malgrado», afferma Federico Falcone, giornalista e autore del libro Vito Taccone. Il camoscio d’Abruzzo.
Il personaggio pubblico e l’uomo in carne ed ossa hanno sempre coinciso in Taccone: combattivo, indomito e dall’animo ribelle, all’occorrenza sapeva ricorrere anche a mezzi non proprio leciti per ottenere il risultato voluto, spesso incarnando agli occhi dell’opinione pubblica il ruolo di “antagonista” (rispetto ai suoi colleghi «belli, buoni e di famiglia benestante», precisa Falcone) perché «nessuno gli aveva regalato niente. Ma quello era il ciclismo dell’epoca: un ciclismo democratico che aveva aiutato l’Italia a rialzarsi dai lutti che la guerra aveva portato con sé», aggiunge l’autore. Un temperamento che venne fuori non solo nel suo primo (e ultimo) Tour de France nel 1964, ma anche al Giro d’Italia dell’anno precedente.
Dopo l’arrivo di una telefonata improvvisa durante il Tour, Taccone ripartì subito per raggiungere il fratello ad Avezzano, vittima di un grave incidente sul posto di lavoro e in fin di vita. Qui si sottopose ad una serie di trasfusioni che consentirono di salvargli la vita, ma che costrinsero il Camoscio d’Abruzzo ad abbandonare la gara. Prima del suo ritiro, si verificò l’episodio che lo etichettò come un atleta scomposto e scorretto. Per cercare di tenersi sveglio durante la corsa, mise sotto al cappello del ghiaccio e lo spagnolo Fernando Manzaneque se ne accorse e si avvicinò a lui, dando luogo ad un epilogo ancora oggi controverso di cui Falcone fornisce ben tre versioni, senza sapere quale sia quella corretta: «una di queste è che Manzaneque chiese a Taccone di dividere con lui il ghiaccio, anche lui provato dalla stanchezza, ma Taccone non capì la sua richiesta. Allora Manzaneque mise le mani sul suo berretto per prendere il ghiaccio, scatenando l’ira di Taccone che lo strattonò, lo fece cadere dalla bici e lo picchiò».
Un’altra celebre rissa fu quella che segnò la fine della carriera ciclistica di Nunzio Pellicciari, probabilmente “colpevole” di non aver collaborato con il Camoscio d’Abruzzo durante la tappa di Oropa al Giro d’Italia del 1963. L’autore racconta: «[Taccone] inchiodò e poi gli sferrò un pugno facendolo cadere in un fosso, dove Pellicciari batté la testa. Nonostante ciò, finì la tappa, ma venne portato all’ospedale di Gattinara per accertamenti e il direttore di gara lo obbligò a ritirarsi dalla competizione». La tappa si concluse in maniera eccezionale: la vittoria di Taccone non si tinse di rosa, ma rimase verde come la maglia simbolo del Gran Premio della Montagna.
Ma delle sue “storture” si accorse Sergio Zavoli, che lo volle come ospite fisso al Processo alla tappa perché, con la sua schiettezza, Taccone portò una ventata di aria fresca all’interno della tv ingessata dei primi anni ’60, facendo di lui «un anfitrione che fu in grado di esercitare un certo appeal sugli italiani perché rappresentava non solo l’italiano medio del dopoguerra, ma soprattutto quella possibilità di riscatto per chi proveniva da un ambiente povero e di provincia», prosegue Falcone.
Dopo l’addio al ciclismo, il genio di Taccone si riversò nel mondo dell’imprenditoria, dove il mix tra scaltrezza ed esperienza di vita gli permise di continuare la sua scalata verso il successo. Proprio grazie alle sue qualità, l’ex Camoscio d’Abruzzo racchiuse tutta l’essenza della sua terra d’origine all’interno di una bottiglia da 70cl, che ancora oggi custodisce gelosamente il segreto del suo contenuto e che, secondo Falcone, ne aumenta il fascino: «l’Amaro Taccone nasce per caso. Una sera andò a cena da alcuni suoi amici frati a Luco dei Marsi, vicino ad Avezzano, e assaggiò questo liquore fatto da loro, di cui chiese la ricetta, ma loro non gliela diedero perché era segreta. Allora Taccone iniziò la sua ricerca delle erbe marsicane e si dice che, alla fine, avesse trovato la formula che più si avvicinava al sapore dell’amaro originale, ma non si è mai saputo se poi avesse comunque avuto la ricetta dai suoi amici». Che l’avesse avuta o che fosse riuscito a riprodurla fedelmente, poco importa: l’amaro divenne famoso anche fuori dai confini abruzzesi, arrivando a produrre circa un milione di bottiglie l’anno.
Oltre all’amaro, Taccone creò anche la Vima, un’azienda produttrice di abbigliamento sportivo, sorta dalle ceneri della Ennerre che vestì persino importanti squadre di calcio come il Napoli di Maradona, dimostrando ancora una volta che la sua lungimiranza scavalcava il perimetro del ciclismo. Ma ad essa è legata anche la vicenda giudiziaria che lo associò ingiustamente alla contraffazione di marchi e che lo logorò fino a causarne verosimilmente la morte nell’ottobre del 2007. Proprietario di un capannone che affittò ad una società dedita ad un’attività di facciata (la vendita di abbigliamento), perché quella vera era legata alla contraffazione di marchi, Taccone entrò in conflitto con i proprietari dell’attività per il mancato pagamento dell’affitto. Dopo vari solleciti, li denunciò alla polizia che fece partire un’inchiesta nota con il nome di “Baci & Abbracci”, nella quale venne coinvolto perché la Vima fu erroneamente identificata come l’azienda dedita alla contraffazione. Dopo l’arresto, alcuni capi d’accusa caddero e Taccone fu scarcerato e messo ai domiciliari, con la possibilità di uscire in determinati orari.
Anche se la sua posizione si alleggerì dal punto di vista giuridico, il fatto di essere un personaggio pubblico di grande rilievo contribuì ad amplificare l’eco mediatica della vicenda, rendendolo suo malgrado protagonista di processi mediatici del tutto fuorvianti. «Lui avvertì fisicamente tutto questo, continuando a ripetere di essere innocente e che non voleva fare la fine di Enzo Tortora. Ma fece una fine anche peggiore perché al processo non ci è mai arrivato», afferma l’autore riferendosi all’attacco cardiaco che lo stroncò tra le mura domestiche.
Non solo ad Avezzano, ma anche a livello nazionale e internazionale, la sua scomparsa sollevò un clamore incredibile perché conclude Falcone: «non solo era morto un ciclista importante, ma era morto un uomo che ha risollevato l’Abruzzo grazie alle sue vittorie. È stato un ciclista molto talentuoso, pur essendo un autodidatta, e persino dopo quindici anni esatti il suo nome pesa ancora».
Leggi anche: Dalle fabbriche di munizioni ai campi da gioco, l’alba del calcio femminile