I nostri sensi ci curano? Scopriamolo con un piccolo esperimento: immaginate di essere in una stanza di ospedale spoglia, con le pareti bianche e affacciata su una serie di palazzoni grigi. Pensate ora che quella stanza dia invece su un giardino in cui è possibile passeggiare tra i colori e i profumi della vegetazione, fare esercizio all’aria aperta e conversare con gli altri pazienti. Non è difficile capire quale dei due ambienti faciliti di più la guarigione.
«Dobbiamo pensare a quanto la semplice vista del verde durante il ricovero possa favorire il recupero». A parlare è Monica Botta, architetto paesaggista titolare dell’omonimo studio di Bellinzago Novarese. I suoi lavori sono legati al concetto di “verde che cura”, teoria che ha cominciato a circolare attorno agli anni Ottanta, grazie al lavoro di molti studiosi, prima fra tutte di Clare Cooper Marcus, paesaggista inglese e autrice di Therapeutic Garden, Design for Healing spaces.
Come viene ribadito più volte nel libro, prima di entrare nel vivo della progettazione è fondamentale un buono studio preliminare, che deve focalizzarsi su un concetto imprescindibile: «Quello di fragilità. Bisogna considerare le debolezze delle singole persone e pensare come organizzare un ambiente che un non vedente possa percepire con gli altri sensi o in cui un disabile si possa sentire a proprio agio».
Non si tratta solo di garantire un soggiorno piacevole ai degenti nelle strutture sanitarie, ma di contribuire attivamente al loro recupero a seconda delle diverse esigenze «Ad esempio per i pazienti affetti da Alzheimer userò accortezze per far fronte alle difficoltà di utilizzo degli spazi, come fiori dai colori sgargianti che mettano in evidenza i passaggi cromatici».
La costruzione di uno spazio di cura efficace non può prescindere da una stretta sinergia tra l’attività dell’architetto e quella del personale sanitario. «Anni fa mi interfacciavo con medici a digiuno di questi temi e la gran parte del mio lavoro consisteva nell’attività di formazione. Ora per fortuna la situazione è cambiata e anzi è lo stesso personale a offrire spunti per la progettazione» spiega Botta. «La difficoltà è far capire la bontà di uno spazio in termini di cura. Alla fine dei lavori io non sto consegnando un giardino, ma una palestra all’aperto, un orto, uno spazio per attività ricreative, educative e per la riabilitazione motoria e psicologica». Spazi che possono essere sfruttati al meglio soltanto se il personale che lo riceve è in grado di comprenderne e valorizzarne appieno le potenzialità.
La complessità del ruolo dell’architetto sta nel saper collegare l’aspetto paesaggistico con quello sanitario attraverso la cura di ogni dettaglio: «Anche il mal posizionamento di un’ombra può tradursi in un fastidioso vuoto architettonico. Devo considerare tutti gli effetti e le altezze che voglio dare. La scelta delle piante è una fase successiva che va coniugata con la funzionalità del luogo».
Il lavoro di Monica Botta non si limita alle strutture sanitarie. Anche all’interno del tessuto urbano possono essere inserite aree verdi che facciano dialogare le esigenze dell’ambiente con quelle della comunità. «In ambito pubblico la cura dell’aspetto botanico si intreccia anche a fattori culturali: se progetto un giardino per Novara non metterò le stesse piante che utilizzerei in una località di mare».
L’attenzione verso il territorio si traduce anche nella considerazione delle sue criticità, soprattutto in un momento cui la tutela dell’ambiente ha assunto caratteri sempre più urgenti. «Spesso sono le stesse amministrazioni che ci commissionano i lavori a segnalarci esigenze specifiche e a sottolineare la loro scarsità di risorse», spiega Botta. Per questo sta sviluppando sempre più progetti che richiedano poca manutenzione e rendano la città più vivibile: «Nelle zone con problemi idrici cerchiamo di utilizzare piante che non abbiano bisogno di molta acqua, mentre nelle città più calde l’obiettivo è creare zone d’ombra per abbassare la temperatura. In altre aree utilizziamo la vegetazione per arginare gli effetti delle piogge torrenziali».
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La progettazione resta però sempre legata alla persona: «Anche in questo caso dovrò sempre avere come guida chi sono i destinatari dell’opera: in un parco per bambini non bisogna tralasciare di inserire elementi di stimolazione visiva accanato alle aree gioco e qualcosa di simile va fatta anche per gli anziani».
Una delle opere più significative realizzate da Botta e dal suo studio è il parco dei nonni di Varese, completato nel 2020. Si stratta di uno spazio a pianta triangolare pensato per incoraggiare le attività che i nonni possono svolgere insieme ai nipoti, ma di cui tutta la comunità può usufruire. La costruzione è stata sponsorizzata da Family Care, un’azienda specializzata nel fornire assistenza qualificata agli anziani, e alla sua inaugurazione è stato anche benedetto da Papa Francesco, con l’augurio che possa diventare strumento di «una sempre più piena integrazione delle diverse generazioni presenti nel territorio».
Al centro si trova un rain garden per la raccolta dell’acqua piovana e tutt’attorno sono posizionati un giardino per le attività motorie, un’area per il gioco della campana, una scacchiera formato gigante e un pannello per il gioco delle coppie: tutte attività che stimolano le capacità cognitive di bambini e anziani, limitando anche gli eventuali effetti di malattie neurodegenerative. «Abbiamo inserito piante che assumono diverse colorazioni tra estate e inverno e altre che danno vita a un percorso visivo, tattile, olfattivo e anche gustativo, grazie ad alcune specie di fiori commestibili come la Stella De Oro, dal sapore dolce e intenso». Il resto del giardino è invece costituito da piante come gelso, salice e ginko biloba che richiamano la tenacia e la longevità.
Il lavoro del paesaggista è creare un legame tra spazi e persone e di cui la sua stessa personalità dell’architetto costituisce parte integrante. «Ci deve essere sempre una storia dietro un giardino, un filo conduttore», conclude Botta, «in questo modo è come se ogni volta consegnassi agli altri un mio racconto dotato di un’anima, qualcosa che rimarrà impresso a chi lo vivrà».