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Esclusiva

Novembre 20 2022.
 
Ultimo aggiornamento: Dicembre 20 2022
È più nobile che sporca quell’ultima meta

Il rugby è uno degli sport più coreografici e cinetici della contemporaneità ma nel sodalizio tra cinema e sport è anche uno dei meno presenti

Un lancio, un’esplosione di forza e velocità: due mani afferrano la palla ovale. Uno, due, tre avversari si susseguono in un corpo a corpo di colpi sordi e ruggiti leonini e la corsa continua fino alla linea di meta, guadagnando ogni centimetro come fosse un campo di battaglia, ma non basta ancora per segnare i cinque punti. È meta soltanto quando si lotta fino all’ultimo, arrivando con tutto il proprio peso a fare pressione sul terreno, a esercitare il potere della propria presenza. Il rugby è sport di tatto e contatto, di pelle contro pelle, lividi, sangue, terra e fango. Uno sport perfetto per il cinema, per la sua fisicità, per la rapidità e per la complessità delle azioni di gioco, eppure uno dei meno rappresentati.

Spazio, tempo e movimento

Tre concetti basilari accomunano il cinema e gli sport moderni, che nascono insieme alla fine del XIX secolo, influenzandosi a vicenda: lo spazio, il tempo e il movimento. Al centro, sottinteso, vi è sempre il corpo. Il sottogenere sportivo nel cinema trova la sua fortuna nel desiderio di veder rappresentate la materialità e la fatica dei corpi sullo schermo, così simili al proprio e al tempo stesso straordinari.

Al cinema il rugby è in grado di raccontare la resistenza e la vulnerabilità degli uomini in campo da un punto di vista privilegiato, vicino e tangibile. È quel che succede nelle inquadrature all’interno della mischia chiusa in Io sono un campione (Lindsay Anderson, 1963) o nei dettagli delle azioni di gioco in Invictus (Clint Eastwood, 2009).

Io sono un campione

«Avanzare, sostenere e avanzare ancora» è il senso del rugby secondo Aldo Rositano, Presidente del CAS Rugby di Reggio Calabria. «Per vincere bisogna lottare e guadagnare terreno nell’area avversaria ma, al tempo stesso per andare avanti è necessario giocare con i passaggi indietro». È questo che rende lo sport della palla ovale in apparenza anomalo. In realtà, quel che richiede è una totale fiducia nella squadra, nell’idea che alle proprie spalle ci sia sempre un compagno pronto a ricevere e proseguire l’azione.

In apparenza opposto a questo spirito è il personaggio di Frank (Richard Harris) in Io sono un campione, un classico del Free Cinema britannico di contestazione tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Violento, rude e collerico, Frank usa il rugby come strumento per incanalare la sua rabbia sociale e la sua incapacità di integrarsi, ma non arriva mai a comprendere la nobiltà dello sport e non riesce a vedere in esso un appiglio per salvarsi. Vuole avanzare senza sostenere, e per questo fallisce.

Invictus, I am the captain of my soul

A descrivere bene il senso di collettività e rispetto reciproco su cui il rugby fonda la sua etica, oltre che il suo regolamento, è invece Invictus di Clint Eastwood, che riprende la storica vittoria del Sudafrica ai mondiali del 1995 come esempio di integrazione nazionale. Il capitano François Pienaar (Matt Damon) parla di una squadra di oltre quaranta milioni di persone “dietro di lui”, un’intera nazione appena uscita dall’apartheid e ancora traumatizzata dal passato che però trova, negli ottanta minuti di ogni partita, un motivo di appartenenza comune.

Invictus e Io sono un campione nascono da due periodi storici diversi e da visioni del mondo opposte, dalla retorica statunitense e dalla contestazione antiborghese dell’Europa di metà Novecento. Si incontrano tuttavia in un punto essenziale, nell’idea che sia l’intera squadra a muovere l’attacco, senza punte o mine vaganti, che oltre a riassumere la psicologia di questo sport, rende la rappresentazione al cinema tra le più spettacolari e articolate possibili.

Questo articolo fa parte del Periodico Zeta N. 4, anno 2022. Leggi qui il numero integrale: Meta • Zeta Numero 4