Leggendo “I figli che non voglio” si ha come la sensazione di essere a cena con amiche e amici di vecchia data – quelli che sai che non ti giudicheranno mai qualsiasi cosa tu faccia o dica – a scambiarsi idee su cosa significhi per noi essere o non essere genitori.
Lo racconta bene l’autrice, la giornalista e scrittrice Simonetta Sciandivasci, che il 16 gennaio scorso, ignara di quello che sarebbe successo, iniziava così il suo articolo per La Stampa: «Caro Istat, ti scrivo perché non rientro nei tuoi grandi numeri. Precisamente, da quanto mi risulta ti risulti, sto in un misero 5 per cento. Una florida e talvolta felice minoranza di donne che non fanno figli perché non vogliono». Da quel momento, qualcosa di imprevedibile è successo. Sono arrivati, in risposta, interventi e racconti intimi di chi sentiva l’esigenza di esprimere il proprio punto di vista sul tema della maternità e della genitorialità. Ne è nato un dibattito, che è andato avanti per settimane sulle pagine del quotidiano torinese.
«Siamo diventati una buca delle lettere e questo è stato incredibile», ricorda Sciandivasci. «Ho ricevuto 200 richieste di persone che volevano scrivere dei pezzi e 150 contributi già pronti, era un po’ difficile pubblicarli tutti. Quindi, dopo un po’ ci siamo fermati, ma c’è stato chi ci ha scritto chiedendoci che fine avessero fatto gli articoli». La giornalista descrive con precisione le fasi che hanno portato alla costruzione de “I figli che non voglio”, un’antologia di racconti e testimonianze che considerano un fatto della vita, una scelta libera l’avere o il non avere dei bambini.
Per quanto riguarda il criterio di selezione, «volevo che ci fossero pezzi belli, che si avesse l’impressione di trovarsi davanti a un mosaico», aggiunge l’autrice. «Non volevo che venissero rappresentate tutte le minoranze, tutte le posizioni, tutte le visioni. Mi interessava che le sensibilità fossero diverse, che ciascuno illuminasse un punto diverso. Ho voluto che dentro ci fossero testi che non rivendicano niente. Volevo che questo fosse un libro di idee e non di proposte».
È così, quindi, che si può imparare che cosa intenda la scrittrice Elisa Casseri, quando dice: «In materia di riproduzione, sono agnostica». O cosa può voler dire, per la sceneggiatrice Silvia Ranfagni, partorire un genitore nel momento in cui si partorisce un figlio. Leggendo Elena Stancanelli, ci si chiede davvero se mettere al mondo qualcuno sia un regalo e non piuttosto un dispetto nei confronti della Terra, mentre le parole di Flavia Gasperetti ci insegnano che la genitorialità non è un concetto universale valido per tutti allo stesso modo e che non avere figli e riappropriarsi del proprio tempo non sono delle scelte egoiste.
«Si pensa sempre che questi temi siano divisivi e mettano le donne contro altre donne, ma questo non è vero», spiega Sciandivasci parlando del suo libro. «Primo, perché non ci sono donne che difendono la maternità così come non ci sono donne che difendono la non maternità. Sono due aspetti della vita, non sono l’uno l’opposto dell’altro. Il fare figli è una cosa, una scelta, un fatto che ha un valore in sé e il non farli è un altro fatto, un’altra scelta che è un assoluto, nel senso latino della parola, cioè “slegato da tutto il resto”».
A quasi un anno dalla pubblicazione del primo articolo apparso su La Stampa, la giornalista si sente più tranquilla, quando pensa che intorno a lei si muovono delle idee diverse in grado di convivere tutte. «All’inizio, mi sentivo quasi in dovere di intestarmi una battaglia, ma ho capito che questa qui non lo è. Questa è un’apertura di una porta, di uno spazio (semmai, la battaglia da combattere è per le adozioni, ma è un discorso diverso). Mi sono un po’ rasserenata, perché ho capito di vivere in un Paese che è molto più aperto, rispetto a quello che immaginavo, nei confronti delle parole che ho scelto per scrivere l’articolo». Nonostante questo, però, «lo iato tra chi ci amministra e le persone» esiste ed è enorme. Una ragione in più affinché non si smetta di parlare di temi all’apparenza privati – ma, in realtà, politici – come la genitorialità.
Per Simonetta Sciandivasci, tra i mezzi più efficaci con cui riuscirci ci sono i giornali. Al contrario di chi crede che siano ormai al tramonto, lei pensa che in un momento di crisi sia «richiesta una grande creatività. E con creatività non intendo dire che i giornali li dobbiamo ripensare: i giornali dobbiamo imparare semplicemente a rivendicarli. Vanno fatti come li abbiamo sempre fatti, ma bene, al meglio. Hanno senso se li facciamo seguendo la ragione per cui sono nati. Raccontare delle storie, dare delle idee, mettere i microfoni davanti a chi non ti aspetti che possa dire delle cose, indagare, ribaltare tutto. A questo sono sempre serviti e a questo devono continuare a servire».
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