Nonna Salice diventa un Albero delle Anime, non parla ma trova lo stesso il modo di indicare il marine Jake Sully come il prescelto, avvolgendolo con i suoi semi sacri e fluttuanti davanti allo sguardo sbalordito di Neytiri/Pocahontas. Sono trascorsi oltre ventisette anni dal classico Disney che raccontava la storia della Powhatan che salvò il colono John Smith, tredici da quando James Cameron rivoluzionò il cinema con la visione tridimensionale del suo Avatar, trasportando il pubblico con la mente su un altro pianeta.
Non sembrano ancora abbastanza, però, per capire cosa stride nella rappresentazione di un popolo che ne invade un altro senza riuscire a sfuggire ai più basilari stereotipi. Avatar: La via dell’acqua, secondo capitolo del blockbuster del 2009, non solo non rinuncia agli elementi di rappresentazione che in passato avevano attirato le accuse più risolute di razzismo e neocolonialismo, ma se possibile fa anche peggio, raddoppiando nella nuova tribù acquatica tutto ciò che già aveva mostrato nel primo film.
Nel cinema statunitense esiste un’espressione precisa che descrive un intero genere narrativo in cui l’eroe bianco di turno viene accolto in un gruppo sociale non occidentale, ne impara gli usi e i costumi, ne assume i simboli esteriori e finisce per diventarne l’eroe, il capo o il salvatore. È il going native di Balla coi lupi, una rappresentazione ancor più specifica del complesso del white savior o del Messia, un archetipo diffusissimo nella letteratura, nell’immaginario audiovisivo e nella vita quotidiana. Si mette in atto ogni volta che si esporta e si impone la superiorità morale del mondo occidentale: dal colonialismo del XVII secolo alle missioni di evangelizzazione.
Cosa ha che fare tutto questo con Avatar? Lo spiega James Cameron, che non ha mai fatto segreto dell’idea alla base del suo franchise miliardario. Risale al 2010 l’intervista rilasciata al The Guardian in cui affermava: «Mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, guardando cosa avrebbero potuto dire i Lakota Sioux quando furono spinti via dalle loro terre, uccisi o ricollocati (…). È stata questa una forza motrice per me nella scrittura di Avatar.
Non potevo far altro che pensare che se avessero potuto vedere nel futuro, se avessero potuto vedere i loro discendenti suicidarsi, con le più alte stime di suicidio del Paese, in una società che è in un vicolo cieco come adesso, avrebbero combattuto e resistito molto di più». They would have fought a lot harder, sono state le esatte parole di James Cameron. Parole che già allora risuonavano fuori dal tempo e oggi, nel percorso di riappropriazione della rappresentazione culturale a Hollywood, appaiono superbe e rendono chiara la prospettiva da cui nasce Avatar. I Na’vi sono i Lakota Sioux, con i loro ornamenti, le piume nei capelli, il viso dipinto in battaglia, le frecce, gli archi e i cavalli. Sono i nobili selvaggi, altro stereotipo abusato, i primitivi ma buoni, non esposti ancora alla corruzione della civilizzazione e per questo in comunicazione panteista con la natura.
James Cameron crea per sé e per il pubblico un modo per entrare da protagonista – e da eroe! – in un mondo in apparenza alieno, invece radicato nella storia dell’America e nella storia del cinema hollywoodiano. Tredici anni dopo migliora gli effetti speciali, immerge gli spettatori in un magnifico universo sommerso, ma ancora sembra non cogliere l’atteggiamento che invalida il lavoro di tutta una vita. La nuova tribù dei Metkayina ricalca la cultura dei Maori ma non rispetta il significato dei loro tatuaggi sacri, il piccolo umano Spider gioca a fare Mowgli su Pandora e Kate Winslet, pur straordinaria come sempre, nel ruolo di Ronal assume un’identità indigena ispirata a popolazioni esistenti, alimentando una pratica ormai condannata a Hollywood, il whitewashing.
Possono far sorridere il termine blueface (derivato da blackface) e l’appello di boicottaggio del film per appropriazione culturale che ricorrono in questi giorni su Twitter, soprattutto a fronte del miliardo di dollari di incassi ottenuto da Avatar: La via dell’acqua in sole due settimane. Non serve però far finta di essere così ingenui. Sulle poltrone del cinema si può arrivare educando il proprio sguardo, leggendo chi produce il film, chi lo scrive, chi crea i mondi di fantasia in cui il pubblico si perde per tre ore e quindici minuti e, soprattutto, qual è la visione del mondo di tutti loro, da quale prospettiva guardano ciò che raccontano.
Avatar guarda tutto dall’alto e dall’esterno, attraverso gli occhi di un uomo bianco che non è solo James Cameron ma lo stesso protagonista Jake Sully (Sam Worthington). La medesima storia – un mondo alieno, le conseguenze del colonialismo, la riscoperta di “Atlantide” – raccontata però dal basso e dall’interno, è quella che crea, invece, Ryan Coogler in Black Panther: Wakanda Forever e basta questo spostamento di fuoco a cambiare tutto.