Raffinato teologo, strenuo custode dell’essenza del cristianesimo, ma anche supporto mite e discreto delle grandi figure che ha accompagnato come cardinale e come Papa emerito. In questi giorni tutto il mondo cattolico dà l’ultimo saluto a Benedetto XVI, al secolo Joseph Raztinger, il pontefice che con le sue dimissioni nel 2013 ha aperto una nuova fase per la Chiesa cattolica. Da molti visto come un conservatore, papa Benedetto XVI è stato spesso attaccato perché ritenuto non abbastanza deciso nell’affrontare alcuni mali che attanagliavano la Chiesa. Secondo Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano dal dicembre 2018, si tratta però di una figura non facile da racchiudere in una definizione.
Direttore, qual è stata secondo lei la cifra distintiva del pontificato di Benedetto XVI? È stato davvero un Papa conservatore?
«Da una parte la cifra si può declinare guardando allo stile personale dell’uomo, semplice e sobrio, all’insegna della gentilezza e dell’umiltà. Come contenuto al centro del suo messaggio, prima ancora del rapporto tra fede e ragione, c’è l’indicazione della gioia cristiana che nasce dall’incontro con l’amore di Dio, l’amore di un Dio che si incarna e viene incontro all’uomo e quindi l’amore dell’uomo che risponde a questa venuta. Il tema principale è l’arrendersi all’amore di Dio. Per quanto riguarda la definizione di “conservatore”, si tratta di categorie giornalistiche, non ecclesiali, che non servono e non si possono applicare. Non spiegano la complessità della Chiesa e degli uomini di Chiesa».
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Benedetto XVI è considerato un Papa Teologo. Ci spiega l’importanza per lui e per la Chiesa del suo ruolo nel Concilio Vaticano II, anche a fronte delle scelte operate poi come cardinale e come pontefice?
«Ratzinger è stato uno dei maggiori teologi del 900, parte di una feconda schiera di teologi tedeschi. La sua Introduzione al cristianesimo e gli scritti sull’escatologia sono dei classici. Il suo contributo è stato molto stimolante. All’inizio del Concilio la sua critica era verso gli schemi che si stavano preparando e invitava a dare risposte ai problemi degli uomini del tempo, non con atteggiamento giudicante, bensì in uno stile materno. È stato figlio e interprete del Concilio fino alla fine. Poi certamente la ricerca teologica è e deve essere libera, altra cosa è la responsabilità del Papa e le azioni che deve portare avanti per guidare la Chiesa».
Qual è stato il suo viaggio più importante?
«A differenza di quanto dichiarato all’inizio del suo pontificato, in 8 anni Benedetto XVI ha viaggiato molto, data l’età, ben 24 viaggi. Difficile scegliere i più importanti. Io direi quello in Turchia del 2009 e quello in Terra Santa dello stesso anno, che si lega alla visita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau del 2006. La Terra Santa è la sorgente del Vangelo e Ratzinger ha spinto molto, come del resto il suo successore Papa Bergoglio, sulla necessità di tornare all’essenzialità del Vangelo, quel viaggio quindi è simbolicamente il coronamento di questo intento. La visita in Turchia si è rivelata invece molto importante per il delicato e “movimentato” dialogo con l’Islam».
Benedetto XVI ha ricevuto frequenti critiche per il suo atteggiamento verso il problema della pedofilia nella Chiesa, ritenuto poco incisivo. Lei ritiene che abbia fatto tutto il possibile a riguardo?
«Non solo ha fatto tutto il possibile, ma anche di più, ha fatto qualcosa di totalmente nuovo. All’opposto di quanto viene raccontato ha affrontato il tema in maniera più forte che in passato, aumentando la vigilanza sugli abusi nell’ottica della trasparenza assoluta. Fu un atteggiamento che all’epoca fu anche criticato: il suo era un approccio penitenziale, teso ad una purificazione della Chiesa, della quale si auspicava una conversione. Papa Francesco non perde occasione per richiamarsi a questa linea, iniziata da Benedetto, di massima trasparenza e collaborazione con la giustizia».
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Ci spiega il significato delle sue storiche dimissioni comunicate l’11 febbraio 2013 ed entrate in vigore il 28 febbraio?
«Un gesto potente che, secondo me, la Chiesa deve ancora metabolizzare a pieno, perché ricco di significato. È un atto che rivela il coraggio dell’umiltà. Io lo leggo in relazione al Vangelo: in esso si racconta la vita di quello che per i credenti è il figlio di Dio, che tra i tanti messaggi porta la desacralizzazione del potere. Per certi versi possiamo quindi definire Gesù un “laico” perché chiede di non idolatrare, divinizzare il potere, che va visto come un servizio. Così va letto anche il gesto di Papa Benedetto XVI, un atto profondamente cristiano con cui anche lo stesso potere ecclesiastico viene sottoposto a questa desacralizzazione».
Quale è stato il rapporto di Benedetto XVI con il suo predecessore, Giovanni Paolo II, e con il suo successore, Papa Francesco?
«I due papi prima e dopo Benedetto non sarebbero stati quello che sono stati senza di lui. I 27 anni di Papa Wojtyla hanno potuto avere l’impatto che hanno avuto anche per la presenza discreta ma importante di Ratzinger come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il suo futuro successore era un punto saldo per Papa Wojtyla, tanto che nel 2002 Ratzinger presentò le sue dimissioni da prefetto per sopraggiunti limiti di età, ma Giovanni Paolo II le rifiutò e se lo tenne stretto fino alla morte. Allo stesso tempo Bergoglio fa suo l’atteggiamento deciso del suo predecessore sul problema degli abusi, ma in generale il pontificato e le dimissioni di Benedetto XVI sono stati l’occasione, direi la condizione per il pontificato di Francesco, che ha sempre riconosciuto l’importanza della presenza di questo “vecchio saggio” all’interno della famiglia della Chiesa. Sia Giovanni Paolo II che Francesco sono indubbiamente più forti nella comunicazione, ma entrambi devono molto a questa figura riservata senza la quale non avrebbero potuto esercitare il proprio magistero nel modo in cui hanno fatto».