«Per Natale concedete la grazia ai carcerati», scriveva Papa Francesco prima delle festività in una lettera ai capi di Stato. Un gesto di «clemenza» richiesto per immaginare una sistema penitenziario diverso, per alleviare il malessere, il disagio fisico e psichico dovuto a cattive condizioni di carcerazione e a pene spesso molto severe. Sono questi i pensieri che risuonano nella mente di Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno Tocchi Caino, l’associazione che lotta contro la pena di morte nel mondo e la tortura nelle carceri. «Clemenza dovrebbe significare grazia, giustizia, ma anche speranza per tutti i detenuti, ergastolani ostativi compresi. Un’amnistia, un indulto potrebbero risollevare il sistema ingolfato da milioni di processi pendenti e il carcere, soffocato dal sovraffollamento» – con un tasso che tocca il 107,7% secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
«Nelle parole del Papa riecheggia il nostro ‘basta pena di morte, pena fino alla morte e morte per pena’». Un desiderio che rimane inespresso nella Riforma Cartabia, in vigore dal 30 dicembre 2022. Si parla, infatti, di un potenziamento della giustizia ma sotto altri profili. Il primo fra tutti è un processo più breve, con una riduzione dei tempi prestabiliti del 25% entro il 2026. Sul piano penale, tra le modifiche, la prescrizione si interrompe dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione sia in caso di condanna. Viene stabilito inoltre un tempo massimo di due anni per i processi d’Appello e di un anno per quelli di Cassazione. Una volta trascorsi i termini, seguirà l’improcedibilità e, quindi, nessuna condanna per l’imputato.
Cambiamenti che trovano perplesso l’avvocato penalista Giuseppe Rossodivita – presidente Commissione Giustizia del Partito Radicale – sul significato di ‘certezza della pena’. «Bisognerebbe rivedere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Se nella macchina faccio entrare qualsiasi cosa questo comporta l’impiego di tante energie, economiche e lavorative».
Valutare quali reati perseguire e quali no per Rossodivita è una scelta «necessaria» per poter influire sul sistema-giustizia. «Sono un milione e mezzo i processi penali pendenti, quattro milioni i procedimenti penali in fase di indagine preliminare, quindi non ancora processi. Cinque milioni di fascicoli che devono essere gestiti da circa diecimila magistrati. È impossibile. Bisogna stringere l’imbuto a monte, facendo in modo che nella macchina si trattino solo reati meritevoli del processo penale. Pochi casi possono ottenere una risposta dallo Stato in tempi ragionevoli».
Voluta dalla riforma, la giustizia riparativa, ossia la risoluzione delle questioni tra la vittima e l’autore del reato con l’aiuto di un terzo imparziale, può aiutare a capire che «la giustizia non è vendetta» .
Si accompagna spesso alla sentenza di condanna la frase ‘giustizia è stata fatta’, ma lo Stato vince quando l’individuo viene rieducato, risocializzato e riportato nella società. I detenuti che scontano la pena fino all’ultimo giorno tornano a delinquere nel 70% dei casi. Quelli che vengono risocializzati, instradati verso percorsi lavorativi, sono autori di reati nel 2%, mentre il 12% spetta ai casi in cui si applicano pene alternative» come la semilibertà, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova al servizio sociale.
«Su una capacità di 36 posti letto la popolazione detenuta varia da 43 fino a 49 persone». Già, a fine ottobre, il commento – di Calogero Lo Presti, coordinatore regionale della Fp Cgil Lombardia della Polizia penitenziaria – sull’aggressione di un poliziotto da parte di tre carcerati non si prestava a libera interpretazione. Il sovraffollamento nelle carceri favorisce la violenza dei detenuti contro la polizia penitenziaria che ha difficoltà nel vigilarli e, quindi, anche l’evasione. L’ultimo caso ha visto sette detenuti scappare dall’istituto minorile Beccaria di Milano.
Uno stato di abbandono e una cattiva condizione di vita all’interno degli istituti carcerari spingono, tante volte, i detenuti ad uccidersi. Il tasso di suicidi vede 13 casi ogni 10.000 persone detenute, un dato mai registrato così alto, secondo il calcolo dell’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.
È d’accordo anche Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino, l’associazione il cui nome vuol dire proprio ‘giustizia senza vendetta’: «Manca personale, mancano condizioni materiali adeguate. Oggi nel carcere si trova tutto ciò che abbiamo abolito: la morte per pena, dopo che abbiamo abolito la pena di morte, e la malattia mentale, in seguito all’abolizione dei manicomi. Come diceva Aldo Moro ‘più che cercare un diritto penale migliore dobbiamo cercare qualcosa di meglio del diritto penale’». Così solo una meticolosa ricerca può superare la malattia, la sofferenza e il tormento di chi si trova al di là delle sbarre.
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