C’è questo brutto vizio tutto italiano per cui il rock non s’ha da fare. Il rock – anglosassone o americano che sia – è sempre qualcos’altro. Non importa chi lo fa, in ogni caso sbaglia. Più che un genere, pare che il concetto di rock venga così ingessato in un canone: dalle fattezze irremovibili e dalle forme tonde e chiuse. Se poi a questo canone aggiungiamo il successo, fatichiamo a guardare con equilibrio un fenomeno: oggi i Måneskin si pongono su questa linea sottile, in bilico tra un (fu) cadavere e una fama da miliardi di dollari.
E a questa gloria nessuno sembrava crederci: una volta passato il testimone – un anno dopo la loro consacrazione mondiale – ai nuovi vincitori della musica europea, con l’esibizione all’Eurovision di Torino, c’è chi profetizzava un esaurimento da fama dei 15 minuti – come ben ricorda il critico musicale del Guardian. Invece sono arrivate le collaborazioni con Baz Luhrman e Iggy Pop, gli MTV Awards e i tour continuamente sold out. Hanno rilasciato quattro singoli in un solo anno e Rush! è la prima loro grande prova internazionale – dopo “Il ballo della vita” (2018) e “Il Teatro dell’Ira” (2021).
Ma cosa ne fanno, i Måneskin, del corpo del rock in questo nuovo esordio? La risposta è che dipende da come lo si guarda. La band non ha mai nascosto la propria predilezione per il mainstream – d’altronde, sono nati sotto il segno di un talent – e di questa sono grandi affinatori di tecnica. In “Rush!” si lasciano alle spalle i ritmi funk rock degli inizi, orientandosi verso l’hard rock – chitarre distorte e bassi pesanti (Gasoline su tutte) – o il punk rock (la bellissima Mark Chapman). E se c’è una cosa meravigliosa, è che si divertono come matti. È probabilmente questo il plus di questo album che – indubbiamente – presenta alti e bassi. I momenti più deboli sono i lenti (Timezone e If Not For You) in stile di ballad: forse è l’inglese, ma rispetto ai suoi equivalenti italiani, questi brani son molto convenzionali – anche nei testi – e più vicini al citato canone che a una sincera rielaborazione d’influenze.
Il rock come ballo della vita
La forza dei Måneskin è che sanno di non potersi prendere “sul serio”. Il rock non può più essere quello che è stato, almeno non che cosa ha rappresentato, in ordine, prima negli anni, 60, poi nei 70, e così avanti. Il sound della band romana non nasce come underground, e sarebbe sbagliato giudicarla con questo metro. Non avrebbe senso né sarebbe il caso, perché, per osare con i paragoni, sarebbe come sostenere che, poiché non scriveva melodie, Bach non era capace di scriverle. Semplicemente, a lui non interessava altro che il rapporto matematico tra le voci.
Rush! è un’intelligente Bla Bla Bla – per citare Damiano – You said I’m ugly and my band sucks / But I just got a billion streaming song / So kiss, kiss my / Bu, bu, bu, bu, bu, bu, butt. La canzone in questione è un riff deliziosamente insopportabile, come il mondo del successo al quale i musicisti strizzano l’occhio a loro modo. Timbri estremi, testi eccessivi – a volte volgari, conditi con ironia e con molto compiacimento: “Rush!” è un patchwork di influenze che – se non originali – rendono i 17 brani di cui è composto esercizi non banali.
Damiano è un eccellente autore di hooks – ganci – da cui è impossibile non rimanere contagiati, sia musicalmente che come paroliere (Gossip, Mamma Mia, Supermodel). Ama giocare con il canone – sesso, droga e rock ‘n roll, di cui i testi sono pieni zeppi – e farne spettacolo. Incarna il mito delle vecchie rockstar consapevole che non è più “nel tempo” di esserlo – e vi rinuncia in Timezone, dove the fame has no meaning – e invita chi ascolta a unirsi a lui al “Ballo della vita”.
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