Parole e suoni raccontano una nazione più di quanto si pensi. Quando il duo Colapesce e Dimartino è salito sul palco di Sanremo a chiedere «un po’ di musica leggera. Anzi, leggerissima» era il 2020 e in gara – accanto ai nomi di storici come Rita Pavone e Michele Zarrillo – scelti da Amadeus c’erano i Pinguini Tattici Nucleari, Achille Lauro e Rancore. Per la seconda volta dal 2019, il festival della canzone italiana affiancava alle vecchie glorie della musica nazionale delle promesse che sconvolgevano il panorama della classica canzone sanremese (cit.). C’erano l’elettronica e gli urli di Achille Lauro, il rap di Rancore e gli arrangiamenti indie pop dei Pinguini. L’anno prima – e non con qualche polemica – ad aver vinto l’edizione non era stato Ultimo con la sua dichiarazione d’amore al pianoforte ma un giovane di origini egiziane cresciuto nella periferia milanese, Alessandro Mahmoud in arte Mahmood.
Era il momento in cui il Festival di Sanremo stava affrontando una delle sue ennesime crisi. Esaurita la novità del fenomeno dei talent (Amici e X-Factor) che per anni avevano fornito al festival nuovi interpreti destinati al mainstream, e dopo la vittoria degli Stadio, Sanremo si trovava davanti a un bivio: continuare sulla strada del pop di massa o intraprendere la via dei più giovani ascoltatori. Per fortuna, ha scelto la seconda. Uno spartiacque senza precedenti che, al di là della portata di Sanremo nella tradizione e nell’immaginario collettivo, ha aiutato ad affievolire quel confine teneva distinte la canzone mainstream (diventata sinonimo di consumo) e quella di qualità.
Nessuno, oggi, sognerebbe di dire che ciò che cantano Madame e Ariete sul palco di Sanremo sia meno vero degli altri colleghi più affermati. Su questo principio si era invece affermato tutto quel sottobosco di musica indipendente che, col senno di poi, ha accettato di entrare nel circuito sanremese con la promessa di non perdere la propria identità. Questa netta divisione era il frutto di quell’assenza musicale (o morte, come la chiama il critico Ernesto Assante) che ha attraversato gli anni Duemila – effetto della tv e dei talent show – ma che trova la sua genesi negli anni Sessanta, precisamente nel 1967. È l’anno del suicidio di Luigi Tenco, il «momento chiave nella costruzione simbolica della canzone d’autore italiana» (Jacopo Tomatis, in Storia culturale della canzone italiana). Ecco apparire la canzone «diversa» (così ne parlava Umberto Eco), di qualità, quella che veramente parla di noi. E che appartiene veramente a qualcuno: non a un paroliere, non a un canzoniere, ma ad un autore.
A partire da quell’anno le estetiche della canzone cambiano radicalmente: mentre i cantautori dei primi anni Sessanta vantavano l’alternativa alla musica leggera pur sentendosi parte di essa, dopo il 1967 non più. Il vero autore è altro, rifiuta Sanremo e il grande pubblico: «C’è il problema del palco, e l’unica alternativa è quella dell’osteria», raccontava un giovane Guccini. È il primo momento in cui ci si rende conto che Sanremo fino ad allora aveva parlato a un solo tipo di pubblico: al paese che si rialzava a tentoni da una tragica guerra.
Esiste ancora una canzone «diversa» ?
Da quella data la canzone italiana si muove su questa doppia linea pressoché ininterrottamente: è allora interessante notare come, negli ultimi anni, questa tendenza stia andando progressivamente ad esaurirsi. Certo snobismo e intellettualismo ancora attuale fanno sempre più fatica a reggersi sulle antiche travi ideologiche – ed estetiche – della canzone del Novecento: le scelte di Amadeus sono arrivate al momento giusto, rispondendo ai bisogni di ragazzi che creano la loro musica dalle loro stanze e con il loro computer, comunicando di esserci e di parlare con un nuovo linguaggio (vedi Madame). Hanno rinfrescano un Sanremo stantio, un po’ vecchio e ottuso e hanno reso più forte la sempre mutevole categoria giovani.
La nuova edizione porterà sul palco 28 cantanti con diverse voci nuove. Il ritorno di J-Ax e Paola e Chiara – così come di altre vecchie guardie – è però il segno di un passo indietro che rischia di vanificare le scelte degli anni precedenti. Speriamo allora che la musica e le parole non ne tradiscano il percorso, restaurando l’immagine di un festival incapace di guardare oltre quella musica leggera. Anzi, leggerissima.
Leggi anche: Splash, Colapesce e Dimartino ci riprovano con l’intelligenza artificiale