«Come puoi essere una musicista se non puoi udire quello che suoni?» Non c’è domanda più comune e maligna di questa, scriveva Evelyn Glennie nel suo Saggio sull’udito. «La risposta, naturalmente, sarebbe che non posso essere una musicista dal momento che non sono in grado di udire». Con queste righe, la percussionista scozzese rispondeva – esasperata – a tutte quelle persone che, con quell’unica domanda, oscuravano la sua arte dietro una sola caratteristica: il suo essere sorda.
Credenza comune – o comunque di noi udenti – è che le persone sorde vivano in un mondo di completo silenzio. La realtà non è proprio così. «La sordità è solo apparentemente assenza: di fatto, senza apparecchi acustici non sono in grado di sentire alcun suono o rumore che non sia molto forte e grave. Tuttavia, c’è sempre la percezione delle vibrazioni e poi dei suoni che provengono dalla mente». Giulia Mazza ha 36 anni, lavora come grafica in una cooperativa sociale di Padova e studia violoncello da quando ha sei anni: indossa gli apparecchi acustici fin da neonata, a causa di una sordità da rosolia congenita.
«Il mio sentire la musica avviene attraverso mani, braccia, petto, piedi: è un’esperienza che si può definire tattile». Il suono, spiega Giulia, non è nient’altro che un impulso vibratorio che arriva al corpo in maniera differente: ascoltiamo con le orecchie, sì, ma anche con la pelle. Che, non a caso, il noto audiologo francese Alfred Tomatis definiva come il grande prolungamento dell’orecchio. «Prima della musica esiste un suono di cui tutti facciamo esperienza fin dal periodo della gestazione, quando sentiamo i movimenti e la voce di nostra madre. Il grembo materno è la prima orchestra, la terra è la grande orchestra. Il suono lo abbiamo già, è dopo che si organizza in musica».
La citazione è di Giulia Cremaschi, maestra di musica di Giulia nonché decana della musicoterapia italiana: dai suoi studi con i bambini sordi è nato “Il corpo vibrante”, teorizzazione e messa in pratica del rapporto sonoro tra uomo e mondo. È stata proprio lei, trent’anni fa, a mettere nelle mani di Giulia bambina un violoncello, consapevole di quanto quello strumento – con la sua grande cassa armonica posizionata a poca distanza dal corpo – avrebbe favorito la percezione delle vibrazioni.
Generalmente, sono i suoni gravi ad essere avvertiti dal corpo con più chiarezza. «Nei miei laboratori utilizzo campane tibetane di diversa grandezza, prima suonate distanza e poi poggiate sul corpo». Fabio De Vincentis è musicoterapeuta e lavora con udenti e sordi di tutte le età: racconta di Feel the sound, un laboratorio organizzato insieme a Movidabilia Spazi senza barriere, nel 2019. «A mano a mano che la grandezza delle campane tibetane utilizzate aumentava, queste cominciavano ad essere percepite più intensamente, non solo nella parte più bassa, ma anche nella parte alta del corpo. Poi abbiamo consegnato ad ogni partecipante – in quel caso erano tutti sordi – la possibilità di suonare attivamente: ciò che mi ha colpito è stato che, in alcuni momenti, il suono delle campane più acute era (per noi udenti) insopportabile a causa della sua intensità. Le piccole campane venivano infatti percosse dai partecipanti fortissimo, nel tentativo, portandole vicino all’orecchio, di percepirne il suono e la vibrazione».
L’orecchio della mente
Per i musicisti sordi questo principio è alla base del proprio lavoro. «Nel nostro corpo le vibrazioni cessano di esistere dal registro medio verso gli acuti. Tutto ciò che non riesco a sentire bene nel registro acuto lo riproduco in quello grave. Una volta capito quale sia il risultato sonoro, allora cerco di immaginarlo nel registro acuto». Davide Santacolomba è concertista e Maestro di pianoforte al conservatorio Arcangelo Corelli di Messina: soffre di ipoacusia neurosensoriale bilaterale profonda, diagnosticatagli quando aveva 8 anni. «In poche parole, percepisco soltanto i suoni bassi fino all’ottava centrale del pianoforte».
Nello studio di un brano, Davide segue quella che chiama la logica della scala: i suoni sono come i gradini di una scala di cui si conosce il meccanismo e di cui si può immaginare la prosecuzione verso l’alto o verso il basso. Per questo Davide parla di orecchio della mente come capacità di “vedere” i suoni: lo studio delle singole voci melodiche, la conoscenza dell’armonia e dell’analisi musicale ne aiutano lo sviluppo. «Col tempo, ho imparato a immaginare i suoni: li sento attraverso le dita, li vedo che assumono forme».
Secondo Davide, le difficoltà sono altre. Ad esempio, suona Debussy «troppo concretamente, quando la musica impressionistica richiederebbe una sonorità più vaga e indefinita». Per questo, lavora molto attraverso feedback esterni. «Quando non capisco bene il tocco che devo dare a singole note, accordi o intere frasi, oppure quanto peso devo dare alle note, i miei colleghi o amici musicisti ed insegnanti riproducono il passaggio musicale con le loro dita sul mio corpo, nello specifico sulla spalla, sul braccio o sulla mano. Io cerco quindi di “sentire” attraverso il tatto».
L’udito come «forma specializzata di tatto» – per citare nuovamente Evelyn Glennie. Alla fine di tutto, «la sordità è solo un modo diverso di ascoltare la musica» spiega Giulia: «In tutta la mia vita ho osservato tanto il modo in cui le persone udenti sentono: cerco di avvicinarmi al loro mondo – non senza difficoltà – ma chiaramente non ho la pretesa che la musica debba essere concepita in maniera differente. Credo solo che la sordità possa contribuire a dissolvere dei muri che si credevano incrollabili». Quelle stesse barriere di cui parla Davide: «per tutti i musicisti esiste un grande sottosopra: quello del suono e il suo esatto contrario, il silenzio». Nel suo caso, è il «silenzio il mio sottosopra». Che non significa assenza, ma corpi vibranti.
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