La disinformazione è come una nuvola. Piccole goccioline si muovono nell’aria senza alcuna apparente gravità. Per il solo fatto di esistere, si spostano all’interno di uno sciame confuso, caotico, che sembra non avere regole. Dalla terra però le gocce scompaiono e rimane solo una grande massa spinta da un sospiro di vento.
Come una nuvola, i bot sui social network sembrano lavorare in autonomia. Qualche repost ogni tanto e un link a siti di fake news quando l’argomento virale lo richiede. Per comprendere il loro comportamento, il team di #Storykillers ha analizzato un database di 50mila falsi profili. Nella loro rete, i nodi conducono a un’azienda israeliana chiamata Demoman. Al vertice Jorge, nome di copertura di Tal Hanan, ex membro del Mossad ed esperto di intelligence.
Negli anni la società ha offerto ai suoi clienti il potere del proprio esercito informatico. Attraverso la piattaforma AIMS, Demoman è stata in grado di creare migliaia di account falsi, ciascuno corredato di foto, biografie e racconti della propria vita. Alla richiesta del cliente, la nuvola sarebbe in grado di inoltrarsi nella rete e rendere virale un argomento, che sia una semplice polemica quotidiana o le richieste di dimissione di un capo di stato.
Secondo delle email ottenute dal quotidiano inglese Guardian, la società israeliana avrebbe anche offerto i suoi servizi nel 2015 a Cambridge Analytica, l’organizzazione che ha agito per influenzare le elezioni americane del 2016 a vantaggio di Donald Trump. A pagarne le spese non sono solo gli Stati Uniti, ma ben 33 stati nel mondo, soprattutto in Africa, America Latina ed est Europa. Infatti sarebbe coinvolto anche il neo-eletto presidente del Kenya William Ruto. Per mostrare il potere della sua organizzazione ai giornalisti sotto copertura, Hanan avrebbe mostrato di poter modificare in tempo reale i messaggi Telegram di vari assistenti nella campagna elettorale keniota.
La scoperta arriva in contemporanea con la riduzione del team Google dedicato a combattere la disinformazione. Infatti, secondo il New York Times, il colosso californiano, tra le 12 mila persone licenziate nel mese di gennaio, avrebbe incluso anche parte della squadra dedicata alle fake news. Con la sua riduzione, rimane quindi un solo dipendente a controllare la verità delle parole degli utenti delle aziende Google, di cui fa parte anche Youtube. Proprio il luogo virtuale a cui, nel 2021, l’International Fact Checking Network ha rivolto una lettera di avvertimento per un semplice motivo: «Youtube è la più grande piattaforma di diffusione di disinformazione al mondo», recita la nota.