“Se parlo al telefono non vado avanti, non posso mica mancare davanti ai fuochi, vieni a trovarmi in cucina se vuoi”. Dunque si parte da Milano, 6 di mattina, treno per Santa Margherita Ligure cercando lo Chef…
Chef? E perché non chiamarlo solo Cuoco? E perché non sta in cucina, invece che girare fra i tavoli come se fosse uno sposino al banchetto nuziale? Se il cuoco italiano, già dal nome francese, dimostra di non saper difendere le sue origini, come si può pretendere che nella sua cucina sia rispettata la tradizione? La nostra cultura gastronomica è bruciata? Che gli chef, infarinati di protagonismo vadano a farsi friggere verrebbe da imprecare.
Il cuoco dei miei sogni però esiste, si chiama Felice Bianchi e nel suo ristorante, l’Approdo a Santa Margherita Ligure, si apparecchia ancora con la tovaglia bianca di fiandra. Da ragazzo aveva lavorato con Nino Bergese, conosciuto come il cuoco dei Re, per aver lavorato con l’alta aristocrazia italiana, i Savoia. Fu anche il primo in Italia a ricevere due stelle dalla leggendaria guida Michelin. “Era un grande cuoco Nino, un po’ dispettoso, ma un grande cuoco” racconta Bianchi e nella sua memoria rivivono i ricordi di quando con Bergese disossavano, farcivano e cucinavano la selvaggina alla trattoria La Santa di Genova, per il poeta Giuseppe Ungaretti, la stella della Scala Maria Callas, la scrittrice Natalia Ginzburg e Vittorio De Sica regista dai quattro premi Oscar.
Lasciato Bergese, Felice si trasferì a Portofino dove iniziò a lavorare nella piccola cucina di 5 metri quadrati del ristorante ‘U Batti’, che nascondeva la segretissima ricetta degli scampi al limone. In tanti hanno cercato di copiarla, ma nessuno si è avvicinato all’originale che Bianchi prepara tutt’ora a L’Approdo: “Sono facilissimi, importante è averli freschi e se il mare è bello, è facile trovarli nostrani. Olio, limone e vino bianco, poi cuociono da soli”. Sorride malizioso, fa l’occhiolino, l’ingrediente segreto non lo svela a nessun costo.
Alle sette del mattino Felice è già ai fornelli, secondo la dura scuola, durata undici anni, di Bergese “Entravo all’alba e spegnevo le luci a mezzanotte” confessa. Ancora oggi, dopo sessantacinque anni, lo trovate tra salse e fumetti di pesce, “La tradizione non può cavarsela con preparazioni pronte, frullatori e surgelati. Essere un cuoco è pesante, la differenza la fanno i ritmi, sono quasi stanco, ma cucino sempre volentieri”.
‘All’Approdo’ se si ordina un primo piatto, Felice posa sul fuoco una pentola d’acqua, “niente cuoci pasta nel mio ristorante, l’acqua si cambia sempre. Mi avevano dato la cucina con il bollitore, l’ho buttato, è una cosa schifosa, cinquanta litri colmi d’amido degli spaghetti precedenti che rovinano la cottura della pasta fresca che segue, non si lavora così ragazzi”.
In cucina affiorano in pochi minuti dalle pentole d’acqua bollente, i piatti che Felice ama di più “da fare e da mangiare”: pansoti e gnocchi di patate “non con la fecola”, conditi con il pesto, non quello fatto come se fosse un trucco di moda, dove il basilico per mantenersi verde, viene sbollentato e poi gettato in acqua ghiacciata per preservarne il colore brillante, senza ossidarlo. All’approdo le foglie non si trattano, il pesto alla genovese viene creato al momento, non si ossida, c’è tempo solo per servirlo e mangiarlo.
Luigi Veronelli, gastronomo e critico celebre negli anni ’70, descriveva Nino Bergese così: “Stelle ti hanno visto muovere – in un danzato colloquio, e silenzioso, coi fornelli – alla ricerca del meglio, dell’eccellenza, della perfezione”. Anche Felice, con la sua esperienza e il calore dei fuochi, riporta i clienti a sapori eleganti, perfetti. Il riso mantecato, accomodato in piatti individuali di porcellana color bianco latte, viene guarnito con il fondo bruno, sembra un ricamo ed è sempre in menù all’Approdo.
“Per il fondo bruno ci vuole molto tempo: giorni di cottura delle ossa, della carne, delle verdure. Si arrostisce lentamente la carne scura, rossa. Solo in forno deve starci al meno una giornata intera, ogni tanto bisogna bagnarla con il vino bianco in modo che non si secchi perché se si asciuga non dà il gusto, deve restare chiara. Allora diventa una cosa delicata, senza sapori di fumo e di arrosto, poi si fa ridurre in pentola e viene filtrata, diventa una cosa direi… deliziosa. Il piatto non è un omaggio a Bergese, non c’è sudditanza, ma una linea mai interrotta con “Nino” che vive attraverso Felice.
I veri cuochi italiani sono generosi nell’offrire al cliente prelibatezze e familiarità. Sarà magari grazie all’impermeabilità della Liguria che la cucina italiana resisterà, a colpi di focaccia di Recco contro le ricette da tv, fra Vip bolliti, personalità confuse e menu raccapriccianti.
In cerca di delizie e di quei sapori eleganti, entrate dunque nella scenografia del Golfo del Tigullio, vicino al lungomare di Santa Margherita Ligure, verso Portofino, girate a destra. Al numero 26 di via Cairoli, c’è sempre lui, Felice Bianchi, che con lo sguardo scanzonato e gli occhi azzurri, invita a mangiare da Re al tempo della Repubblica.