Ciò che diciamo sugli spalti di uno stadio può raccontare una società molto più di quel che si possa immaginare. Prendiamo un coro dedicato alla nazionale di calcio: visto che è un Paese intero a doverlo cantare, deve mettere d’accordo proprio tutti. Riassumere, insomma, quei due-tre significati di nazione che scaldino il cuore delle masse e dai quali nessuno si senta escluso.
Quando gli argentini si sono chiesti cosa cantare insieme per il Mondiale in Qatar, e dunque cosa inserire nel minimo comun denominatore di ciò che ci rende una nazione, per il coro Muchachos hanno scelto questi tre concetti: 1) siamo la terra di Maradona, 2) siamo la terra di Messi, 3) non dimenticheremo mai i ragazzi delle Malvinas, ovvero i giovani caduti nella guerra che, nel 1982, su ordine della dittatura militare, tentò senza successo di occupare l’arcipelago dell’Atlantico del Sud sul quale vige tutt’ora il controllo del Regno Unito.
Non c’è nulla che unisca gli argentini come la nazionale di calcio e la rivendicazione di sovranità sulle Malvinas, che considerano proprie nonostante siano sotto la corona britannica dal 1833, prima della costituzione definitiva dello Stato argentino – proprio per questo sono meglio note come Isole Falkland. L’effetto della popolarità di questo tema, manco a dirlo, tocca anche la politica, che della disputa Falkland/Malvinas ha continuato a farne uso non solo come strumento di politica estera, ma anche di costruzione di consenso interno.
Una politica «implacabile»
Negli ultimi tempi, il governo argentino del peronista Alberto Fernández è tornato con forza sulla questione, riprendendo una politica aggressiva dopo anni di rapporti più distesi con il Regno Unito. Al G20 di Nuova Delhi dello scorso marzo, il Ministro degli Esteri Santiago Cafiero ha infatti sollecitato all’omologo inglese James Cleverly «di riprendere i negoziati per la sovranità» richiedendo per questo «una riunione nella sede delle Nazioni Unite». Già un anno prima Fernández aveva dichiarato che riprendersi le isole fosse tornato «un obiettivo irrinunciabile» per il Paese.
Per dimostrare di fare sul serio, nella stessa occasione Cafiero ha notificato la cancellazione del patto Foradori-Duncan, un accordo non vincolante di cooperazione fra Argentina e UK firmato nel 2016 dal precedente governo, guidato da Mauricio Macri. Con esso i due Paesi avevano iniziato a collaborare nelle Falkland/Malvinas su temi di sfruttamento di risorse naturali e di ricerca e sviluppo. Agli argentini, inoltre, era stato concesso di lavorare per identificare i corpi dei caduti nell’82, un tema sensibile proprio per l’affezione popolare verso i giovani chiamati nell’esercito per affrontare la guerra e mai tornati a casa.
Cuestión Malvinas: Argentina notificó la decisión de poner fin al “Pacto Foradori-Duncan” de 2016.
— Santiago Cafiero (@SantiagoCafiero) March 2, 2023
Lo hice en reunión con el Secretario de Estado para las Relaciones Exteriores del Reino Unido, James Cleverly, en la Cumbre de cancilleres del @g20org en Nueva Delhi, India. pic.twitter.com/ZQnwKgKUtI
«La politica argentina verso le Malvinas storicamente è cambiata a seconda della posizione del presidente di turno. Menem negli anni ’90 e Macri più recentemente avevano avuto un atteggiamento occidentalista. Con questa sferzata, Fernández è tornato alla politica autonomista che aveva già intrapreso Néstor Kirchner, nei primi anni 2000», nota Martín Diéguez, esperto del tema e professore dell’Università di San Andrés (Buenos Aires).
«Il suo scopo è portare il Regno Unito a negoziare sulla sovranità delle isole attraverso una politica dura, implacabile. L’idea di fondo è che più gli abitanti delle Malvinas saranno isolati e in difficoltà, più gli inglesi saranno indotti a trattare», continua. Tuttavia, è da poco prima della guerra, nell’82, che il Regno Unito non si siede al tavolo negoziale con l’Argentina.
Obiettivo concreto o «trucco pubblicitario»?
L’obiettivo reale, però, potrebbe essere diverso. «Ciò che porta avanti il governo non è altro che un trucco pubblicitario», riflette Diéguez. All’orizzonte, in effetti, ci sono le elezioni di fine anno e non è improbabile che dietro queste mosse ci sia un intento propagandistico. «Pare un tentativo di differenziazione con altri settori politici argentini piuttosto che una misura di politica estera che possa portare un guadagno al Paese», gli fa eco Sergio Suppo, autore del libro Malvinas, il luogo più amato e sconosciuto dagli argentini.
Mentre è complesso stabilire quanti voti sposti un posizionamento del genere, non c’è dubbio che sia politicamente furbo. Le isole non solo mettono d’accordo tutti, ma sono un’icona onnipresente nella vita degli argentini: tappezzano le strade di tutte le città, esercizi commerciali, vie o interi quartieri portano il loro nome e la mappa dell’arcipelago è addirittura stampata sulle banconote da 50 pesos.
La versione dei Falklanders
«Ciò che sorprende è che, nonostante il tema delle Malvinas faccia così parte della causa nazionale, questo non significa che gli argentini sappiano cosa succeda sulle isole o come la pensi chi ci abiti. Anzi, tutto il contrario», spiega Suppo. Argentina e Falkland, infatti, sono due mondi che non comunicano, anche perché i voli da e per il continente sono stati ridotti all’osso per isolare economicamente e socialmente i kelpers, come vengono chiamati gli isolani, con i collegamenti che sono diminuiti dopo l’ultimo cambio di governo.
La versione argentina ignora spesso, fra l’altro, che gli abitanti delle Falkland ripudino l’idea di cambiare bandiera, tanto che il 14 giugno, giorno in cui gli inglesi sconfissero l’Argentina nel 1982, è segnato sul calendario come «Giorno della Liberazione». In un referendum del 2013, inoltre, il 98,8% dei 3.500 isolani si è detto favorevole a rimanere così come stanno oggi: sotto controllo britannico, ma gestiti da un governo autonomo. Per i rioplatensi non sono però fatti rilevanti. Le richieste di autodeterminazione dei kelpers non entrano nel dibattito argentino perché, spiega Diéguez, «l’idea dominante è che siano un popolo ‘trapiantato’, non di indigeni, ma portato lì dalla colonizzazione britannica nell’800» e, dunque, non possano avere voce in capitolo sulla sovranità del territorio.
Per gli isolani, tuttavia, «questa visione è pura spazzatura. Io sono falklander di settima generazione e non credo che molti argentini possano dire lo stesso», controbatte in un accento posh britannico Teslyn Barkman, una degli otto rappresentanti eletti al congresso delle Falkland. «Nel 1800 la maggior parte del Sudamerica era inabitato e le Falkland non avevano popolazioni indigene. La storia della mia famiglia risale a quegli anni e noi siamo gli unici mai stati qui», sostiene. «Se vogliamo prendere un certo tipo di posizioni — continua — potremmo sostenere che l’Uruguay abbia diritti sul territorio argentino, ad esempio».
«È nel loro interesse parlare delle Falkland come se non esistessero, come fossero un mucchio di rocce che possono essere comprate e vendute, trattando gli abitanti come oggetti», denuncia Barkman. «Sembra che loro agenda nazionale sia cacciare me, la mia famiglia e i miei amici dalla nostra casa. È una violazione dei diritti umani in piena regola».
«Con il governo Macri c’era stato un piccolo impegno per eliminare alcune delle sanzioni economiche illegali che ci sono state imposte. Parlo di bloccare il nostro spazio aereo, non lasciare entrare navi nel nostro mare, cercare di cancellare la nostra storia, sostenere che non esistiamo o che non dovremmo aver diritto a un’economia aperta. Il patto Foradori-Duncan era un modo per sfidare questa visione. Non capiamo perché oggi si sia tornati indietro».
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Mentre l’Argentina ritorna all’attacco del proprio simbolo nazionale, dunque, la soluzione isolana alla questione Falkland/Malvinas è remare in senso opposto: «Se la gente lì sapesse davvero quello che significa vivere da 40 anni sotto costante attacco, militare e diplomatico, la penserebbe diversamente. Va fatto capire che le rivendicazioni del governo argentino non fanno parte del mondo moderno e che noi non siamo più una colonia. Certo, loro vogliono continuare a trattarci come se lo fossimo, perché se siamo una colonia britannica, allora possiamo tranquillamente essere una colonia argentina. Non mi sembra un atteggiamento progressista, per usare un eufemismo».