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Esclusiva

Giugno 10 2023
Costruire una comunità

Nell’esperienza della Scuola Popolare di Viareggio l’esempio di un’azione collettiva che la politica partitica sembra aver perso la capacità di compiere

Dai balconi che sovrastano la porta a vetri che è l’ingresso della Scuola Popolare nel quartiere Varignano di Viareggio, in Toscana, sventolano sempre dei lenzuoli. Di fronte stanno abbandonate, le biciclette dei ragazzini che affollano con i loro libri e quaderni il grande tavolo di legno che occupa gran parte della stanza. Chi passa li intravede, attraverso i vetri pieni di adesivi, tra le pareti occupate dalle cartine geografiche, le scritte e le foto che testimoniano il percorso lungo vent’anni che ha portato la “scuolina” a essere un punto di riferimento in un quartiere segnato dal degrado edilizio, dalle difficoltà sociali ed economiche e dalla povertà educativa.

«L’idea della scuola popolare è nata 20 anni fa in ambito politico, tra i giovani di Rifondazione comunista. La necessità era quella di fare in modo che la politica uscisse dalle stanze, aprirla attraverso pratiche sociali. Sentivamo il bisogno di riappassionare noi del gruppo e di riavvicinare le persone alla politica attraverso azioni concrete». Ludovica Antonini è una delle fondatrici, insieme a Susanna Paoletti, della Scuola Popolare. Quando inizia a parlare del suo progetto seleziona le parole, spenge la sigaretta ancora intera in un gesto che sembra fatto apposta per raccogliere tutta la concentrazione, tutta la cura che merita il racconto di questi anni di impegno di comunità.

Perché questo è la scuolina prima di tutto, questo è rimasta attraverso tutte trasformazioni che ha accolto su di sé per uniformarsi ai bisogni del quartiere. Una comunità. «Abbiamo avuto subito un grandissimo seguito, sono venuti tantissimi bambini e bambine di tutte le fasce di età. I risultati sono stati buoni anche in termini di frequenza. Questi bambini magari non andavano a scuola ma venivano al “centro”. Lo chiamavano così, il centro. Da noi avevano trovato una comunità e poi forse una certa purezza, la possibilità di presentarsi senza etichetta».

Nel tempo la Scuola Popolare è entrata a far parte di una rete di realtà del quartiere che lavorano insieme. La parrocchia, l’istituto scolastico di zona, le altre associazioni si riuniscono, adesso informalmente, due volte l’anno.

«C’è un vuoto della politica che si riesce a colmare solo con una comunità. Io a volte ho chiamato il prete, don Marcello, a volte ho chiamato Nella De Angeli, la dirigente scolastica, ma non nego che anche lei ha chiamato tante volte me o Susanna per inserire nel doposcuola qualche ragazzino, supportare attraverso lo sportello psicologico alcune famiglie. Il legame è molto forte».

Il legame è molto forte anche con le famiglie del quartiere, grazie al doposcuola gestito attraverso il volontariato sono emersi altri bisogni. «Con chi entra a chiedere aiuto abbiamo sempre instaurato un rapporto alla pari che negli anni è diventato anche di amicizia». Così succede che emergano le problematiche legate alla mancanza di dispositivi elettronici, per cui l’associazione si è attivata per comprarli e distribuirli, il bisogno di assistenza psicologica e legale, per cui sono stati predisposti due sportelli, la necessità di un aiuto per redigere il curriculum, per la quale sono state predisposti orari di disponibilità.

«L’altra settimana un ragazzo che abita nelle case popolari ci ha chiamato perché la famiglia ha paura di non avere più i requisiti per rimanerci. Una mamma l’altro giorno ha chiesto il nostro aiuto per rimettere in sesto un parchetto dove portava i suoi figli, ora ventenni. Adesso ci porta i nipoti, l’ha rimesso a posto e ha chiesto il nostro aiuto per chiamare la Sea e portare via lo sporco e per fare la richiesta affinché l’erba venga tagliata periodicamente».

Un pomeriggio una signora che ha portato il figlio a studiare insieme a un’amica da poco arrivata in Italia ha detto a Ludovica che ci sarebbe stato bisogno di insegnare la lingua anche alle donne. Così nell’ultimo anno è iniziato anche il corso di lingua per le donne internazionali.

«Con loro abbiamo iniziato un percorso che è anche politico, di costruzione di un’identità di cittadine italiane. Queste donne cominciano a capire quali sono le istituzioni, dove si trova il comune, come fare delle procedure burocratiche. Tramite questo corso riescono ad avere un contatto più diretto anche con la scuola dei propri figli. Spesso si pensa che i genitori dei bambini stranieri siano disinteressati perché non si presentano a parlare con gli insegnanti. In realtà c’è la grande vergogna di non riuscire a comunicare».

Per essere efficace questa rete di azioni deve aprirsi anche alla politica istituzionale il cui coinvolgimento è però sempre parziale, mediato dall’associazionismo e dall’attivismo civico. «Siamo assuefatti tutti da un certo modo di fare politica che è mediatico. Oggi i partiti si presentano con le soluzioni in tasca e delle promesse che sul momento portano a un’adesione poi, quando non vengono mantenute, provocano sfiducia e abbandono. Io penso che invece bisogna esserci, creare prospettive. Non è una cosa da poco».

Ludovica parla consapevole del fatto che questo percorso, anche politico, è tutt’altro che immediato, che «ha bisogno di tempo per dare risultati». Anche perché oggi essere attivi sui territori significa prima di tutto creare un senso di identità, di collettività, che non può essere calato dall’alto, mentre l’azione di una politica partitica scollegata dal territorio rischia di fare l’esatto contrario.

«Nei quartieri periferici caratterizzati da una larga componente multiculturale si crea un’ambivalenza. Spesso la solidarietà può diventare divisoria, realizzarsi solo all’interno di determinati gruppi». Ma queste divisioni non sono naturali o inevitabili, provengono anch’esse da una gestione politica diversificata, ad esempio, dell’accoglienza. «Quando l’anno scorso erano previsti in arrivo profughi dall’Ucraina fu diffusa una comunicazione che invitava i dirigenti scolastici a garantire in tempi brevi dei mediatori linguistici per i bambini nelle scuole. Un alunno di altre nazionalità aspetta mesi prima di poter sperare di vedersi garantito lo stesso diritto. Così diventa ancora più preziosa l’idea di creare una rete di comunità, perché la tendenza politica è di creare divisioni».

Spetta quindi all’associazionismo, capace di azioni che si calano nella dimensione quotidiana delle persone, farsi elemento di comunicazione tra queste contraddizioni. Sempre attraverso interventi concreti. Il prossimo passo per la Scuola popolare è l’organizzazione di un corso di cucina marocchina e pakistana fatto dalle donne del corso di italiano. Così si crea lavoro mentre si costruisce una comunità.