«Essere rientrata nella cinquina del Premio Strega significa una cosa molto bella: che il libro ha incontrato i lettori, e questa è la cosa fondamentale per chi scrive», racconta Maria Grazia Calandrone. «Devo dire la verità, mi ero già accorta dell’affetto delle persone proprio nei confronti della storia che racconto nel libro, quella di Lucia».
Dove non mi hai portata, questo il titolo del romanzo, ha origine nella biografia di Calandrone, il che rende la conquista della giuria anche un traguardo persone e intimo, oltre che un successo in termini lavorativi.
«Con lo stato d’animo radioattivo di chi sente di compiere un dovere rimandato per decenni, vengo con te dove non mi hai portata: nella morte». Il racconto dell’autrice è un viaggio indietro nel tempo, una ricerca spasmodica della propria identità, un’indagine minuziosa dei fatti, uno studio profondo delle ragioni, un’indagine necessaria della verità. Maria Grazia Calandrone pone con urgenza e dolore l’inchiostro nero sulle pagine bianche che ha la necessità di riempire. La scrittrice, abbandonata a qualche mese di vita nel parco di Villa Borghese, ripercorre la vita di Lucia, sua madre, con dolcezza e attenzione, cercando di arrivare alla radice di ciò da cui la sua vita è iniziata: un addio.
La decisione di scrivere questo libro, di indagare sulla vita di Lucia e raccontarla nasce per caso. È il 16 febbraio del 2021 quando, ospite della trasmissione televisiva di Serena Bortone, presenta il libro precedente, che riguarda la storia dell’adozione. Proprio in quella circostanza, cioè da quella trasmissione, è stata contattata da molte persone che avevano conosciuto la madre biologica.
«In quel momento è nata non l’esigenza di scrivere un libro, ma di sapere e di conoscere», racconta Calandrone. «La necessità di scrivere il libro è nata nel momento in cui tutte le voci convergevano nel raccontare una storia di grande sofferenza e di grande ingiustizia».
Per Maria Grazia Calandrone, però, scrivere questo libro non era solo una necessità personale. «Purtroppo la cronaca recente continua a testimoniare che da parte di 3000 famiglie l’anno c’è ancora l’impossibilità di tenere con sé i propri figli. Questi dati confermano, con dolore, che la mia è una storia attuale e che valeva la pena scrivere, ma non perché avessi il bisogno di parlare dei fatti miei o di Lucia, ma perché credo che questo libro abbia un valore sociale».
Uno degli aspetti più affascinanti di Dove non mi hai portata è la dolcezza con cui è raccontata la storia di Lucia, una madre da cui si è stati abbandonati ma per la quale invece che provare rancore si scava a fondo, cercando di indagare tutte le sofferenze di cui è stata vittima e che l’hanno portata a un gesto così estremo come il privarsi dell’essere madre – in primis – e poi della vita.
«Lo scopo di questa ricerca era proprio la pacificazione con tutto ciò che è stato insieme alla comprensione di quali fossero le motivazioni di due gesti estremi come quelli che ha compiuto Lucia. Non si può affrontare una vicenda del genere arrabbiati, altrimenti non c’è lucidità e quello che io ho cercato di fare in questo libro e nella ricerca che ne sta alla base è stato cercare di essere il più possibile obiettiva per riuscire identificare al meglio le ragioni, calandomi nelle decisioni di Lucia e Giuseppe e nelle loro vite».
Per entrare in esse «è stato necessario conoscere il maggior numero possibile di dettagli, sia del loro carattere sia della situazione dell’epoca che della loro situazione socioeconomica». La scrittrice racconta così la sua spasmodica ricerca di particolari, elemento chiave della scrittura del libro. «Senza tutti questi dati non si può arrivare dentro l’anima di qualcuno. Questo libro è stato una raccolta di informazioni che serviva all’identificazione di queste due persone, alla comprensione».
Dove non mi hai portata è un libro che vuole essere un dono per l’autrice stessa e soprattutto per quella madre che le ha dato la vita e poco dopo le ha fatto conoscere la morte. «Mi sembra che tutto quello che si poteva sviscerare su questa vicenda io lo abbia sviscerato, quindi più di questo non credo di dover e di poter fare».
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