«È un fatto di portata storica, ma prima o poi doveva succedere». Il professor Toni Roger Campione, ordinario di Filosofia del diritto a Oviedo e membro del Comitato Scientifico della Società Internazionale di Bioetica, dà il suo punto di vista sul suicidio assistito di Anna. «Qui in Spagna un caso del genere non fa notizia, l’eutanasia è un diritto riconosciuto dal 2021».
A che punto è l’Italia rispetto agli altri Paesi?
«Abbastanza indietro. La sentenza della Consulta del 2019 ha depenalizzato il reato di assistenza nel suicidio, ma il vuoto normativo non è stato colmato. In Europa, Olanda, Belgio e Lussemburgo sono stati tra i primi a dotarsi di una legge sul fine vita già all’inizio degli anni Duemila. La Svizzera è l’unica a riconoscere questo diritto anche ai non residenti».
I movimenti Pro Life italiani sottolineano che a livello legale non esiste un diritto alla morte, ma solo un diritto alla vita…
«Questo contrasto era presente anche in Spagna. La legge non è fondata sulla presunta esistenza di un diritto a morire, ma su quello all’autodeterminazione e sulla dignità della persona. La normativa spagnola sancisce in modo esplicito il principio dell’autonomia del paziente, che ha diritto a prendere decisioni sulla propria condizione».
Come dovrebbe essere formulata la legge sul fine vita?
«Serve innanzitutto un dibattito senza pregiudizi. La legge spagnola è recente e migliorabile, ma è un buon punto di riferimento. I requisiti per accedere all’eutanasia sono due: una malattia grave e incurabile e una sofferenza cronica e impossibilitante. Nel caso di Anna, i medici li hanno rilevati entrambi».
Perché in Italia si è aperto al suicidio assistito ma non all’eutanasia?
«Bisogna scavare a fondo nella società per scoprire perché c’è questa chiusura. A livello clinico e giuridico i casi del suicidio assistito e dell’eutanasia sono distinti. Ma dal punto di vista etico cosa cambia tra assistere un suicidio e intervenire attivamente per attuarlo? È davvero così diverso rispetto all’interruzione del supporto vitale o alla sedazione profonda? A me pare di no, sono tutti casi legati alla compassione e al rispetto della dignità del malato».
E cosa pensa dei pazienti che non possono esprimere il proprio consenso?
«I principi della bioetica sono l’autonomia, la beneficenza e la giustizia. Se il paziente non può decidere da sé non possiamo ragionare in questi termini. Un modo per affrontare la questione è il testamento biologico, che permette di depositare le proprie volontà nell’ipotesi di non essere in grado di esprimerle in futuro. In Spagna è legale da vent’anni, in Italia prevede solo la possibilità di rifiutare un trattamento sanitario».