Una manciata di marmellata, un cuoco che a Dachau le chiedeva quale fosse il suo nome, una parola sussurrata da un militare che le suggeriva di girare a destra verso i lavori forzati invece di seguire la madre a sinistra verso le camere a gas, un soldato che non la punì con la morte dopo un’aggressione ad un uomo tedesco, un guanto bucato. Queste sono le “cinque luci”, i ricordi meno dolorosi che conserva Edith Bruck, scrittrice ebraica, della sua adolescenza passata nei campi di concentramento nazisti. Quando il Papa le chiese cosa ci fosse in quel guanto bucato lei rispose: «La vita».
«Ero 11.152 e non ero considerata una persona umana. Questa domanda “Come ti chiami?” era fondamentale per la speranza. Per dire che io sono una persona umana. È molto difficile far capire cosa significasse sentirsi chiedere il proprio nome».
Il racconto di Edith Bruck trasmette tutta la preoccupazione di una giovane ragazza che teme di non riuscire più a riconoscersi, di dimenticare se stessa. Le sue parole descrivono con chiarezza la nebulosità dei giorni vissuti nei lager insieme alla madre e alla sorella.
Da allora è stata sempre accompagnata da un forte senso di vergogna nei confronti di tutto ciò che aveva visto accadere sulla sua pelle e su quella di milioni di ebrei. Una sensazione di cui a novantadue anni non si è ancora liberata. Oggi, nonostante il suo continuo impegno come testimone della Shoah, prova ancora quello stesso sentimento quando condivide con i suoi discorsi e con le poesie la sofferenza del popolo ebraico: «È molto difficile parlare non solo ai piccoli, ma anche agli adulti. Spesso mi sono sentita in imbarazzo a dire delle cose così feroci. Mi vergognavo io per quelli che hanno fatto quello che hanno fatto. Non sono riuscita a dire tutto fino in fondo ai più giovani».
“I frutti della memoria”, il suo ultimo scritto pubblicato il 23 gennaio, è il risultato del lavoro con i ragazzi nelle scuole e nelle università. Una raccolta di tutte le risposte ricevute negli anni dagli studenti che ha incontrato durante il suo impegno in quanto testimone dell’Olocausto. Tutte le lettere ricevute la ripagano per la fatica che comporta la narrazione della crudeltà. Con questo libro, ha risposto alla necessità di ringraziare gli alunni con la promessa di continuare a diffondere la sua testimonianza.
Edith Bruck ha sempre raccontato l’esperienza di una violenza condivisa solo con altre donne. Durante la deportazione afferma di aver conosciuto la loro forza. Ogni giorno le prigioniere venivano selezionate e tutte, poco prima dei controlli, cercavano la salvezza nel fondotinta fatto di polvere e acqua e stringevano poi le guance con le dita per donarsi un colorito vivo combattendo la fatica e la denutrizione.
«Noi non siamo mai state insieme agli uomini, ma a Berger-Belsen ho visto moltissimi uomini. Erano tutti morti sul suolo. Ci avevano detto che ci avrebbero dato due porzioni di zuppa se avessimo ripulito. Così abbiamo trascinato quei cadaveri nudi».
La dichiarazione di queste brutalità fa conoscere il significato della tragicità a tutti coloro che non le hanno vissute. I poeti scrivono del mondo, dei sentimenti, di ciò che manca e, quindi, Edith Bruck nelle sue poesie parla della mancanza di umanità e di amore. L’antisemitismo non è stato ancora del tutto sradicato: «È una tragedia che riguarda tutta l’Europa che va verso la destra. Episodi fascisti vengono trascurati come fossero niente e non me lo spiego. Ho visto tutte le manifestazioni anche quest’ultima. Nessun paese, tranne in minima parte la Germania, ha fatto i conti con il proprio passato. Abbandonare uno stato di regime totalitario non basta per dimostrarsi democratici».
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