Due modi di stare al mondo, due modi per cambiarlo. Nelle pagine di Malcolm X e Martin Luther King. L’ape e la colomba, gli eroi dell’emancipazione afroamericana mostrano le loro contraddizioni: Malcolm, profeta della ribellione violenta, e il dottor King, pastore battista che guidò la lotta pacifica per i diritti civili. Entrambi, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, indicarono la strada per combattere la segregazione razziale, ma con strategie opposte.
Il libro, in uscita per l’editore Einaudi, ripercorre la storia della popolazione nera negli Stati Uniti, attraverso le vite dei suoi leader: da Frederick Douglass, nato schiavo nel Maryland, dopo che la madre era stata stuprata dal padrone, a Marcus Garvey, che predicava il ritorno in Africa per riunire i neri del mondo. Si arriva fino al grande intellettuale William E. B. Du Bois, che legò le nozioni di razza e classe, chiedendo la nascita di una nazione nera dentro quella americana.
Questa tradizione di pensiero ispirò forme di attivismo agli antipodi. In un paese dominato dai bianchi, «King cercava di moralizzare la società, mentre Malcolm X voleva combatterla e distruggerla», racconta l’autore Gianluca Briguglia, docente di storia delle dottrine politiche all’Università di Venezia. Eppure, il tempo ha fatto convergere le loro idee. Dopo la morte di Malcolm, assassinato durante un discorso ad Harlem, «King comprese l’importanza del suo radicalismo, senza però rinunciare ai principi della non violenza», spiega Briguglia.
Entrambi predicarono la religione come lotta politica. Il cristianesimo dei padroni, che avevano cancellato le tradizioni degli schiavi a bastonate, si era imposto tra gli afroamericani come fede consolatoria. «I bianchi usavano la Bibbia per giustificare lo schiavismo», ricorda l’autore, «attraverso il messaggio “Soffrite adesso e sarete liberi dopo la morte”». Malcom rifiutò la fede dei bianchi, abbracciando l’islam come religione politica. Allo stesso modo, rifiutò il suo cognome di nascita, “Little”, ereditato dal padrone dei suoi antenati. Il cambio di nome diede luce a una nuova identità individuale, all’interno della comunità Nation of Islam, la stessa del pugile Mohammed Alì.
King invece emerse come predicatore battista, tra le professioni di spessore intellettuale nella società segregata, in cui i neri non avevano accesso all’istruzione. Il sogno di una terra promessa, garantita dalla provvidenza di Dio, accompagnò il suo messaggio profetico verso la conquista della parità razziale.
L’obiettivo venne raggiunto: il presidente Lyndon Johnson firmò il Civil Rights Act nel 1964, rendendo illegale l’apatheid. Pari diritti di voto, istruzione e dignità, per i quali si erano sacrificati in tanti. Anche King divenne martire, il 4 aprile 1968 a Memphis. Vite spente dalla violenza, la stessa che il pastore aveva respinto per tutta la vita. «Credeva che anche contro i nazisti si potesse rispondere con il pacifismo», ricorda Briguglia.
La sua lezione resta attuale. «Oggi c’è spazio per la non violenza, dove le soluzioni militari falliscono», prosegue l’autore, che si chiede perché non esistano, in Medio Oriente, un King palestinese o israeliano: «Probabilmente ci sono già, ma devono ancora mostrare la loro forza».