Esclusiva

Febbraio 26 2024
La Zona d’interesse, l’ordinarietà del male

Il film del regista britannico Jonathan Glazer è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Martin Amis candidato agli Oscar 2024 come “miglior film”

«E alla fine la strega cattiva brucia viva per gli atti orribili che ha commesso», è il finale della fiaba dei fratelli Grimm, Hänsel e Gretel, che un padre legge alla figlia pronta ad addormentarsi sotto le coperte. È una scena di tranquillità domestica naturale se non fosse che dalla finestra entra un’aurea rossa: è l’inceneritore del campo di concentramento di Auschwitz di cui il padre, Rudolf Höß, è il comandante. La Zona di interesse, del regista britannico Jonathan Glazer, è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Martin Amis candidato agli Oscar 2024 nella categoria “miglior film”. Il lungometraggio ritrae una famiglia la cui vita scorre accanto al campo di Auschwitz, dove Adolf Hitler, Führer del Terzo Reich, ha deciso di imprigionare e terminare ebrei, zingari e omosessuali.

Il film richiede un grande sforzo di concentrazione da parte del pubblico perché, se si restasse ad un primo livello di osservazione, parrebbe non accadere nulla: si alternano scene di pranzi e piccoli momenti di ilarità famigliare e coniugale. La moglie del comandante, Hedwig Höß, ricevendo alcune amiche per il tè, parla degli ultimi acquisti che ha fatto: pellicce, trucchi e scarpe. Poi, però, racconta di aver trovato un gioiello cucito dentro un vestito. E, all’improvviso, lo spettatore è costretto a contestualizzare la scena: sono abiti e gioielli che le guardie hanno tolto agli ebrei arrivati al campo di concentramento e hanno regalato alle mogli dei comandanti.

Il figlio più grande, prima di cedere al sonno, si diverte sul letto. Alla domanda del fratello minore, risponde che sta giocando con alcuni denti. Ed ecco il ritorno immediato ad una terribile realtà: sono i denti d’oro degli ebrei deportati ad Auschwitz.

Le scene che si susseguono giocano con la dicotomia tra normalità e orrifico. I tragediografi greci non rappresentavano il male sulla scena perché lo spettatore, non vedendolo, provasse una paura maggiore. La vita della famiglia scorre serena e il risultato è che il pubblico non comprende come sia possibile normalizzare l’orrore: i personaggi sembrano vivere in una bolla che impedisce loro di vedere fuori dal giardino.

L’unico personaggio che non riesce a vivere nella casa, infatti, è uno estraneo al contesto: è la mamma della moglie del comandante. La signora avrebbe voluto passare dei giorni con la figlia, ma, di notte, non può dormire: il rosso del fuoco che sta bruciando gli ebrei e le urla di dolore non le consentono di riposarsi. Quando ne capisce il motivo, scappa lasciando solo una lettera.

Il solo momento che rende manifesto l’assurdo di quella falsa normalità è quando il padre trova nel lago, dove stanno nuotando i figli, le ossa degli ebrei. Corre verso di loro, li porta preoccupato a casa: i bambini sono lavati, i vestiti puliti e le vasche igienizzate per evitare il contagio.

Il male è sempre presente, ma mai rappresentato. Durante una riunione tra gerarchi nazisti, si parla di costi di manodopera, di quantità di merce, di contratti con fornitori: sembra una normale riunione aziendale e lo spettatore deve sforzarsi per capire che si sta parlando di un campo di concentramento e che la “merce” sono gli ebrei.

Il gioco macabro che il regista offre è perturbante: fa nascere un sentimento di angoscia e un senso di confusione perché c’è un qualcosa percepito, allo stesso tempo, sia come familiare che come estraneo. L’effetto è ottenuto anche grazie alla colonna sonora curata dalla cantante Mica Levi e dalle inquadrature fisse del polacco Łukasz Żal, già premio Oscar per la miglior fotografia nel 2015 col film Ida di Paweł Pawlikowski.

La dicotomia tra apparenza e realtà raggiunge il massimo quando la moglie del comandante è orgogliosa di farsi chiamare “La regina di Auschwitz”. Un costante senso di straniamento regna sullo spettatore dall’inizio alla fine del film. È costretto a visualizzare allo stesso tempo il piano narrativo e quello reale, qual era la percezione della famiglia Höß e cosa è davvero stata la Shoah: un genocidio.

La scena finale riporta chi guarda al principio di realtà, mostrando alcuni inservienti intenti a pulire un museo che ha in esposizioni vestiti, scarpe, nomi e foto di sei milioni di ebrei massacrati nei campi di concentramento.