Esclusiva

Marzo 21 2024
La sconfitta della mafia passa dai giovani

“Non voltatevi dall’altra parte”, l’invito ai giovani di Nino Di Matteo, sostituto procuratore Antimafia e il racconto del prefetto della Palermo post stragi

Domenico Gabriele, conosciuto a Crotone tra i suoi amici come Dodò, aveva gli occhi dolci, un carattere allegro e una passione smisurata per il pallone. Passava tutto il giorno a giocare con i suoi coetanei nel campetto della città nella contrada Margherita. Un pomeriggio, proprio su quel rettangolo verde, invece del pallone, volano proiettili. Uno lo centra. Il piccolo Dodò, a soli undici anni, muore.

È anche per lui l’evento tenutosi presso l’università Luiss della Giornata nazionale in memoria delle vittime della mafia. Tra gli ospiti, tutti siciliani, sono presenti il sostituto procuratore antimafia Nino Di Matteo, il prefetto presso il ministero dell’Interno Renato Cortese, i giornalisti Lirio Abbate e Myriam Giacalone e il docente di diritto umano e humanities Pietro Sabella.

Apre gli interventi quest’ultimo che racconta gli inizi della carriera a Palermo. Quando Cortese parla degli incarichi che ha avuto utilizza sempre il termine “fortuna”, nonostante in diverse occasioni il suo successore, come nel caso di Beppe Montana, sia stato trucidato dalla criminalità organizzata. Lo fa perché «l’Italia prima di essere il Paese della mafia, è il Paese dell’antimafia». Racconta della frustrazione dovuta alla mancanza di fiducia da parte dei cittadini nei confronti delle forze dell’ordine. Dalla strage di Capaci, dove muore il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta, a via d’Amelio, attentato dinamitardo che uccide Paolo Borsellino mentre va a trovare la madre, passando per i processi a gabbie vuote. «Ma iddu non lo prendono mai», è la frase che risuona nella città e il riferimento è al “capo dei capi” Bernardo Provenzano latitante dal ’63. La speranza, però, riprende con gli arresti di Brusca, che diede l’ordine di sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe di Matteo, di Spatuzza, Aglieri e Gricoli, che spara in faccia a 3p, Padre Pino Puglisi.

La svolta, però, avviene nel 2006 quando “Iddu” viene catturato dopo otto anni di indagini. La città scende in piazza e va sotto la questura per applaudire la polizia che aveva catturato Provenzano. Lo Stato dimostra di esserci e «la città comprende che la mafia non è invincibile». Cortese, però, spiega: «Ora ce n’è un’altra che va combattuta con altrettanto vigore e lo Stato ha l’obbligo di dimostrare che c’è perché così non c’è bisogno di appoggiarsi all’agenzia di servizi della mafia». Senza la fiducia dei cittadini non si può agire perché chiarisce sempre il prefetto: «La mafia non è solo un gruppo di delinquenti ma poggia sul consenso sociale, dobbiamo tutti capire che la mafia non è solo quella che spara, con la coppola o la lupara, ma ha tante sfaccettature. Lo sforzo è quello di non accettare il mondo di compromissione e dire no alla mafia».

Di altrettanta lucidità ma maggiore crudezza l’intervento del sostituto procuratore antimafia. Attorno a due concetti, per lui, ruota la riscossa contro la criminalità organizzata: conoscenza e consapevolezza. «Noi popolo dobbiamo acquisire la consapevolezza che senza recidere rapporti potere-mafia non si vincerà mai la guerra – continua Di Matteo – perché qui sono state compiute stragi, uccisi funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, giornalisti, sacerdoti e bambini. Alcune cose, però, sono state dimenticate troppo in fretta: nella sentenza della Cassazione si accerta che il sette volte presidente del Consiglio Andreotti incontra i capi delle famiglie mafiose di Palermo subito prima e subito dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione». Per poi continuare con la condanna per concorso in associazione mafiosa di Marcello dell’Utri, tra i fondatori di Forza Italia o l’ex sindaco palermitano in quota Democrazia Cristiana Vito Ciancimino, condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Da qui la critica: «Non vinceremo mai la guerra se non c’è un cambio anche delle condizioni che sono estranee rispetto alla magistratura e della polizia. Si vince se la questione mafiosa diventa per i governi di ogni colore una delle questioni principali da affrontare, con la conservazione degli strumenti più importanti e prendendo coscienza che la responsabilità penale non esaurisce la responsabilità di certe condotte». E poi l’invito ai giovani a ribellarsi alle piccole cose che non vanno bene, «a non voltarsi dall’altra parte”, a dare vita al cambiamento.

Parole che ricordano quelle pronunciate dal giudice Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci nel ’92: «Avevamo capito che la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni (…) le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.

Leggi anche: «Storie dimenticate da ricordare sempre»: il racconto di Attilio Bolzoni