Roma, formalmente dichiarata “città aperta” dal governo italiano retto dal generale Pietro Badoglio, è dal 12 settembre 1943 sotto occupazione tedesca. La città è governata con il pugno di ferro dalle autorità militari: si “distingue” il generale delle SS e capo della Gestapo Herbert Kappler, che il 16 ottobre si rende protagonista del rastrellamento del ghetto e della deportazione degli ebrei romani nei campi di sterminio.
Il 23 marzo 1944, poco prima delle 16, un boato sconquassa via Rasella, nel centro storico della capitale. Un carretto da spazzino esplode al passaggio di una colonna del reggimento di polizia nazista “Bozen”, composto da altoatesini. Segue il lancio di quattro bombe a mano. I soldati reagiscono sparando verso le finestre della strada. Nell’attacco, compiuto dai Gruppi di Azione Patriottica legati al Partito Comunista, muoiono trentatré militari e due civili italiani. Nel dopoguerra Giorgio Amendola, dirigente del PCI, si assunse la responsabilità dell’azione, compiuta con l’obiettivo di «vincere la passività della popolazione scatenando l’attacco armato contro le forze di occupazione».
Sul posto arrivano immediatamente le autorità naziste e il ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana Guido Buffarini Guidi. Il generale Kurt Mälzer, ubriaco secondo alcune testimonianze, è dell’idea di far saltare in aria tutto il quartiere, ma viene dissuaso dal corpo diplomatico. Partono subito i rastrellamenti nelle vie circostanti per individuare i responsabili. Le truppe tedesche sono affiancate dai reparti fascisti. I rastrellati vengono allineati su via delle Quattro Fontane sotto la cancellata di Palazzo Barberini, oggi sede delle Gallerie Nazionali di Arte Antica. Dieci di loro verranno fucilati il giorno successivo.
I rastrellati vengono portati in parte al palazzo del Viminale. Questo non era più sede del ministero dell’interno, trasferitosi a Salò, dal dicembre 1943 e negli ultimi piani vi si era acquartierato proprio il reggimento “Bozen”. Le cantine del palazzo, invece, erano state convertite in prigioni. Intanto le autorità naziste stanno decidendo il da farsi. Alle 20 Kappler riceve l’ordine del feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante supremo di tutte le forze naziste in Italia: vanno uccisi dieci italiani per ogni tedesco morto, cominciando dai condannati a morte in attesa, che, però, sono solo tre.
La notte fra il 23 e il 24 marzo è convulsa. I comandanti delle forze d’occupazione individuano la maggior parte dei condannati fra gli arrestati per “Attività antitedesca” detenuti nel carcere di Regina Coeli e nel quartier generale della Gestapo in via Tasso 145. Più di 2000 antifascisti romani sono incarcerati e torturati qui fra il 1943 e il 1944. Oggi ospita il Museo Storico della Liberazione. La mattina del 24 marzo la lista stilata da Kappler e dal suo primo assistente Erich Priebke è di 269 nomi. Il compito di trovare i restanti 50 è affidato al questore di Roma Pietro Caruso e a Pietro Koch, capo del Reparto Speciale di Polizia Repubblicana e feroce repressore di antifascisti.
Mentre sono già in corso i preparativi per la rappresaglia, dall’ospedale militare San Giacomo arriva la notizia della morte di un soldato tedesco rimasto ferito a via Rasella. Servono altri dieci italiani. Nella lista definitiva ci sono anche 75 persone di religione ebraica, italiani e stranieri destinati ai campi di sterminio. Come luogo dell’esecuzione vengono scelte delle cave di pozzolana in via Ardeatina. A partire dalle 15, a gruppi di cinque, i detenuti vengono portati in fondo alle gallerie: la strage ha inizio. Alle 20, dopo aver ucciso altri cinque prigionieri in più rispetto a quelli stabiliti, i soldati tedeschi fanno esplodere l’entrata sigillandola nel tentativo di nascondere i propri crimini. I misfatti vengono però scoperti e, finita la guerra, il governo italiano assume «il solenne impegno a erigere sul luogo della vendetta tedesca un monumento a perenne ricordo dei Martiri e di tutti i caduti della guerra di Liberazione».