Per la prima volta dall’Unità d’Italia, nel 2022 le nascite nel nostro Paese sono scese sotto quota quattrocentomila. Secondo l’ultimo report dell’Istituto nazionale di Statistica (Istat), sono state poco più di 393.000, settemila in meno del 2021 e inferiori di ben 183.000 unità rispetto al 2008, quando si registrò il valore più alto degli anni Duemila (576.659). Le stime per i primi sei mesi del 2023 evidenziano un ulteriore calo di 3.500 neonati. Il tasso di fecondità totale (TFT), l’indice che misura il numero medio di figli per donna, due anni fa era pari a 1,24, il terzo più basso d’Europa, e sarebbe ora di 1,22.
È un decremento dovuto in maggioranza alla scarsa disponibilità di donne in età riproduttiva: le trentenni di oggi sono nate a metà degli anni Novanta, al culmine del cosiddetto “baby-bust”, la quarantennale fase di riduzione del tasso di fecondità, arrivato nel 1995 al minimo storico di 1,19. Il successivo recupero fra il 2002 e il 2008, che i demografi chiamano «ripresina», fu dovuto in gran parte al contributo delle straniere. Negli ultimi anni anche questo è venuto meno, come chiarisce Maria Rita Testa, professoressa di demografia all’università Luiss Guido Carli di Roma: «Dal 2019 la fecondità delle italiane è rimasta invariata a 1,18 figli per donna, mentre quella delle immigrate era vicina a 2 ed è scesa a 1,87». Chi arriva in Italia, anche da Paesi ad altissima natalità, si adegua al contesto socio-economico, perché incontra le stesse difficoltà delle autoctone, nel conciliare cura dei figli e carriera lavorativa.
L’inversione di tendenza negli anni Dieci è ben evidenziata dal grafico qui sotto, che correla il tasso di fecondità totale delle residenti con il tasso di natalità, ovvero il rapporto tra il numero dei nati in un anno e la media della popolazione, moltiplicato per mille. Il picco del 2008 è seguito da una continua diminuzione di entrambi gli indicatori, con la curva che si abbassa fino ai valori preoccupanti degli ultimi anni.
Dietro al calo dei nati in Italia si nasconde anche la diffusione dei valori post-moderni, avviatasi in Europa negli anni Ottanta, che ha determinato un continuo e graduale posticipo della maternità. Tale ritardo è stato in parte compensato dall’aumento della fecondità fuori dal matrimonio nei Paesi nordici, mentre in Italia è cresciuta solo negli ultimi due decenni: nel 1995 i nati da coppie non sposate erano l’8%,oggi sono il 41,5%, eppure la natalità continua a calare. «Una spiegazione risiede nelle differenze di genere, ancora molto marcate», dice Testa. Oltre all’ampio divario nei tassi di occupazione – quello femminile è pari al 55%, quattordici punti percentuali sotto la media dell’Unione europea, quello maschile al 75% – persiste una differenza nella distribuzione dei compiti all’interno della coppia: la donna è ancora la principale responsabile dei lavori domestici e della cura della prole. Il cambiamento valoriale sta avvenendo, inoltre, in una congiuntura sfavorevole. Alla stagnazione economica si aggiungono l’incertezza provocata dalle guerre e la “climate anxiety”, l’ansia per i cambiamenti climatici, che colpisce in particolare le nuove generazioni.
La demografia è caratterizzata da una forte inerzia, da un anno all’altro sembra cambiare poco, ma nel lungo periodo gli effetti sono devastanti: in sessant’anni, l’Italia ha perso il 60% dei nati. Fra le cause, anche la posticipazione dell’età media al parto. Il grafico dell’Istat che riproponiamo di seguito, con i tassi di fecondità specifici per età delle donne nel 1995, nel 2010 e nel 2022, parla chiaro: diciannove anni fa il valore era poco inferiore ai trent’anni, mentre nell’ultima rilevazione è pari a 32,4, più alto per le italiane (32,9) che per le straniere (29,6).
Il dato preoccupante non è tanto il calo della popolazione, scesa nel 2023 per la prima volta sotto la soglia dei sessanta milioni, ma il forte invecchiamento che ne deriva. Ogni 100 giovani, si contano oggi 184 anziani. Gustavo De Santis, docente di demografia all’Università di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, afferma: «La piramide per età è da tempo ribaltata: la base, costituita dalle nuove generazioni, è molto stretta, mentre il vertice, formato dalle coorti degli over-sessantacinquenni, si allargherà sempre di più». La tendenza al ribasso delle nascite ha ricadute preoccupanti sull’economia e sul sistema previdenziale. I possibili rimedi non piacciono all’opinione pubblica. «Lavorare più a lungo, abbassare le pensioni o aprire le porte all’immigrazione sono soluzioni sgradite», continua De Santis. Le straniere inoltre non basterebbero a risollevare la situazione, per due motivi. Il primo è che sono selezionate, cioè fanno in media meno figli delle connazionali che restano nel Paese d’origine. Il secondo è che spesso l’Italia è per loro solo una tappa di passaggio: «Arrivano da noi per trovare un lavoro, ma dopo aver messo da parte un po’ di soldi, tornano a casa», spiega il professore.
Per le italiane è inoltre sempre più marcata la distanza fra intenzioni e realizzazioni riproduttive: si desiderano due figli, ma sempre più spesso se ne mette al mondo solo uno. È il “fertility gap”, che se confermato nel tempo potrebbe tradursi nella trappola della bassa fecondità, teorizzata dalla professoressa Testa: «Se le nascite restassero a lungo sotto il livello di rimpiazzo di due nati per donna – spiega – le coppie adotterebbero come modello di riferimento la one-child family. Il cambiamento delle ambizioni delle giovani generazioni spingerebbe ancora più in basso la curva della fecondità, innescando una spirale viziosa irreversibile».
Di fronte a questa crisi, è essenziale pensare a politiche capaci di invertire il trend. «Servono pacchetti di policies continuative, flessibili e differenziate, come quelle adottate dai Paesi del Nord Europa», afferma la demografa. Affinché producano effetti tangibili, devono durare almeno trent’anni e rivolgersi non solo alle donne, ma anche alle giovani coppie. La Germania ha puntato sulla riconciliazione lavoro-famiglia: i congedi di maternità e di paternità combinati con un più agevole accesso agli asili. I Paesi scandinavi hanno perseguito l’uguaglianza di genere, dalla Francia possiamo imitare la varietà del sostegno. «Lo definirei un approccio sistemico, che esca dai confini della politica familiare – conclude Testa – Occorre una soluzione non solo demografica alla crisi delle nascite».