Esclusiva

Aprile 3 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 4 2024
Elezioni in Turchia, esito amaro per Erdogan

Le elezioni locali di Istanbul e Ankara segnano una battuta d’arresto per il presidente Erdoğan. Ne parla a Zeta Seyda Canepa, corrispondente dall’Italia per l’emittente turca NTV

«Vince le elezioni il CHP, il partito socialdemocratico che, dopo ben 47 anni, è la formazione politica più votata in Turchia. C’è una sconfitta netta per l’AKP, scivolato per la prima volta al secondo posto dall’inizio dell’ascesa di Erdoğan », racconta Seyda Canepa, corrispondente dall’Italia per l’emittente turca NTV. Nella notte dello spoglio elettorale lo slogan “La Turchia è secolarizzata e lo rimarrà” è cantato davanti al comune della capitale, Ankara. I cittadini non smettono di ballare, urlare e suonare il clacson. È festa grande nelle strade di Istanbul, come Bagdat Avenue – una via dall’aria pittoresca lunga 14 chilometri – utilizzata in passato come collegamento tra Costantinopoli e l’Anatolia, crocevia di culture e civiltà.

Non esulta Recep Tayyip Erdoğan, che subisce la peggiore sconfitta della sua carriera politica. I sindaci uscenti del CHP, Ekrem Imamoğlu a Istanbul, e Mansur Yavaş ad Ankara, trionfano confermando la vittoria ottenuta alle consultazioni amministrative del 2019.

Perde il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) – fondato dal presidente turco nel 2001 – che non riesce a riconquistare le due maggiori città del paese contro il CHP, formazione laica a lungo etichettata dagli avversari come “elitaria”. Il peso dell’esito è indiscutibile e sorride alla maggiore forza di opposizione. Soprattutto considerando l’importanza di Istanbul, la più grande città d’Europa, che conta il 18% della popolazione turca e vale un terzo dell’economia nazionale. Smacco elettorale per l’AKP, una formazione conservatrice con una forte impronta islamista.

Il vittorioso Imamoğlu si candida come futuro sfidante di Erdoğan. Con più del 51% dei voti prevale in quella che è considerata un microcosmo in Turchia, la cerniera che separa l’Oriente dall’Occidente, a cavallo tra Europa e Asia. Quella città simbolica in cui Erdogan è nato – nel quartiere popolare di Kasımpaşa, – e da cui è iniziata, 22 anni fa, la parabola ascendente come sindaco, poi primo ministro e infine presidente della Repubblica.

Il partito al potere ha raggiunto il 35.7 % a livello nazionale, perdendo consensi nei grandi centri urbani, roccaforti conservatrici come Adıyaman, Afyonkarahisar, Zonguldak, e Bursa, nella Turchia occidentale, capitale per decenni dell’Impero ottomano nel XIV secolo, che sorge ai piedi del monte Uludağ. Il CHP è arrivato al 37.4%, conquistando il primo posto nelle preferenze degli elettori, e ha mantenuto Adana e Izmir, cosmopolita città portuale affacciata sull’Egeo. Il risultato storico è certificato da un’affermazione significativa nell’est del paese e dalla conquista dei voti di conservatori e nazionalisti che nelle tornate precedenti hanno preferito l’AKP. Erdoğan ha riconosciuto la sconfitta e promesso di ascoltare il messaggio dei votanti: «Il 31 marzo non è la fine per noi, ma un punto di svolta», le sue parole.

Nonostante abbiano votato circa 60 milioni di persone in tutto il paese, Canepa riconosce una diminuzione percentuale nell’affluenza del 9/10%, con parte dell’elettorato del presidente che ha dato un segnale netto. L’astensione equivale ad una richiesta di cambiamento legata alla crisi del costo della vita. I fattori della sconfitta sono riconducibili al quadro economico. L’alto tasso di inflazione che dura da tempo, la costante diminuzione del potere d’acquisto e il mancato aumento atteso da 16 milioni di pensionati appartenenti al bacino di Erdoğan si sono rivelati decisivi.

È presto per fare previsioni sfavorevoli al capo di stato, che rimarrà al potere fino al 2028, forte della vittoria alle elezioni presidenziali del 2023. Canepa ritiene che «probabilmente Imamoğlu sarà il candidato per il CHP, ma il partito deve dimostrare la capacità di consolidare il voto di maggioranza ottenuto». Sebbene molti analisti parlino di una svolta che può disegnare scenari inaspettati, la giornalista invita alla cautela perché il «futuro è tutto da interpretare. Ci sono i voti di protesta e quelli non espressi; i numeri devono essere interpretati in modo sociologico per capire l’andamento delle elezioni e i cittadini potrebbero cambiare idea».

Il risultato non è passato inosservato e immediata è stata la reazione dell’Unione europea. «I diritti fondamentali sono al centro delle nostre relazioni con la Turchia. Non vediamo l’ora di lavorare insieme su riforme che possano avvicinarla all’Ue su questi principi e valori», ha detto il portavoce per la politica estera Peter Stano. Ma il paese è sempre più lontano dall’adesione. I negoziati, avviati nell’ottobre 2005, si trovano in una fase di stallo dal giugno 2018 a causa del declino in materia di democrazia e stato di diritto. Secondo un report del The Economist del 2023, il paese di Erdoğan, al 102º posto tra le nazioni prese in esame, è un regime ibrido, con un punteggio di 4.33 su 10. Non una democrazia piena come Norvegia, Nuova Zelanda o Islanda. E nemmeno imperfetta come Brasile o India. Tra i parametri analizzati spiccano in negativo la voce sulle libertà civili e quella sul pluralismo nel processo elettorale.