Fino a cinque anni fa, per la maggior parte della popolazione mondiale, l’idea di lavorare o studiare nella comodità di un salotto o di una camera da letto era impensabile. Poi è arrivato il Covid e immagini come questa sono diventate la norma. Ci siamo abituati a vedere manager in giacca e cravatta dalla vita in su, ma con i pantaloni del pigiama e le pantofole ancora ai piedi. Genitori e figli che litigavano per il wi-fi troppo debole, studenti costretti a fare esami universitari in cucina o nel bagno per mancanza di spazi. Se per molti il lavoro da remoto ha rappresentato una gabbia, con tutte le complicazioni psicologiche del caso, tanti altri hanno approfittato del fenomeno per dedicare più tempo alla famiglia o per riavvicinarsi ai propri cari, come i fuorisede. I più fortunati si sono ritirati, anche solo per qualche mese, nelle case al mare o in campagna.
Alla fine della pandemia si parlava di south-working in riferimento ai lavoratori meridionali tornati nei loro paesi di origine e lì rimasti dopo la fine delle restrizioni. La legge li tutelava, fino a pochi mesi fa le aziende erano tenute a mantenere una quota di lavoratori in smart working o lavoro ibrido. Dopo la bocciatura dell’emendamento al decreto mille proroghe, che avrebbe dovuto posticipare la data di scadenza del diritto allo smart working, dal primo aprile le aziende sono libere di disciplinare il lavoro come meglio ritengono: per molti questo ha sancito il ritorno alla presenza obbligatoria, come nell’era pre-Covid.
Francesco Maria Spanò, membro del comitato scientifico dei Borghi più belli d’Italia e direttore delle risorse umane dell’università Luiss Guido Carli, è contrario a questo passo indietro: «C’era una proposta di legge in merito allo smart working che ora è depositata in Senato. Non solo, ci sono iniziative anche a livello regionale in Lazio e Calabria che favoriscono il lavoro agile, antidoti allo spopolamento». L’occasione per parlare di questi argomenti si è presentata mercoledì 17 aprile durante il convegno “L’impatto economico e occupazionale del turismo e della digitalizzazione nei Borghi più belli d’Italia”, tenutosi nel palazzo della Treccani di Roma, organizzato dalla società di consulenza Deloitte e dall’associazione dei Borghi più belli d’Italia. Durante l’evento è stato presentato in anteprima uno studio da cui è emerso che in Italia, seppur in misura minore rispetto al resto dell’Europa, lo smart working sta prendendo piede come modalità di lavoro alternativa. I dati parlano chiaro: il 41,5% dei lavoratori sarebbe disposto a trasferirsi in un luogo più isolato e a contatto con la natura, mentre il 34,5% si sposterebbe in un piccolo centro abitato, per vivere in maniera più sostenibile e in una cerchia sociale più ristretta. II 21,6% dei lavoratori campionati dallo studio sarebbe addirittura disposto a rinunciare a una parte dello stipendio, pur di trasferirsi.
Ora che i prezzi medi degli affitti nelle principali città metropolitane sono alle stelle e che molti lavori si possono fare da remoto, lo smart working potrebbe stimolare il risveglio di luoghi dove oggi sembra non ci sia futuro. Evitando di far diventare i borghi parchi giochi per i turisti, contrastando il fenomeno dell’overtourism che interessa alcune località italiane, come Civita di Bagnoregio. Lo smart working sarebbe la soluzione ideale per far tornare in vita i piccoli paesi e combattere lo spopolamento delle aree interne.
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