Graham Robert Watson, volto noto dei liberaldemocratici inglesi al Parlamento Europeo, ex presidente dell’Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa (Alde), ora è capolista nella circoscrizione Nord-Est della lista Stati Uniti d’Europa. Impegnato in politica fin da ragazzo con il sogno di un’Europa green e fermo oppositore della Brexit, ora scende in campo in Italia in difesa dei valori europei.
In una precedente intervista lei si è definito un “rifugiato della Brexit”, affermando che oggi intravede in Italia le stesse cose che vedeva in Inghilterra venti anni fa. Può spiegarmi meglio questo concetto?
Sono stato vent’anni al Parlamento Europeo dal 1994 al 2014 e verso il 2002-2004 ho assistito al tentativo di far cambiare idea ai britannici sull’Europa. È stato un processo lento, all’inizio portato avanti soprattutto attraverso i social: ogni settimana gli utenti erano invasi da messaggi di propaganda anti-europei, fino a creare un clima nel quale la Brexit è stata possibile, perché tutte queste persone avevano ricevuto messaggi euroscettici. Ciò era organizzato da Steve Bannon, uno stratega di Trump e della Brexit che adesso si è stabilito in Italia, dove organizza corsi di formazione per coloro che vogliono far uscire il Paese dall’Europa, con l’appoggio di un miliardario americano, Robert Mercer.
Come ha reagito alla proposta della candidatura?
Quando Matteo Renzi e Emma Bonino mi hanno chiesto di candidarmi come capolista nel Nord-Est ho accettato con piacere, perché ho visto e vissuto sulla mia pelle quello che è successo in Inghilterra e non voglio vederlo in Italia. Temo che qui possa crescere un’atmosfera antieuropeista: basta vedere lo slogan scelto da Matteo Salvini “Meno Europa”, mentre la mia filosofia è che ci serve più Europa. Si dà tutto per scontato, come poter viaggiare nella comunità europea senza passaporto o poter studiare e lavorare dove si vuole, mentre gli inglesi hanno capito il costo della Brexit e adesso il 70% di loro la ritiene un grave errore. Come Massimo D’Azeglio disse “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”, io dico che gli europei ci sono ma bisogna fare l’Europa.
Riprendendo la celebre frase “l’Europa è un gigante economico e un nano politico”, se lei venisse eletto, cosa farebbe per trovare una possibile soluzione al problema?
L’idea della nostra lista è attuare in cinque anni – il tempo di un mandato al Parlamento europeo – una serie di riforme limitate, ma mirate al miglioramento dell’Europa. Le proposte principali sono tre. Prima di tutto, eleggere il presidente della Commissione europea al voto universale, come si fa in altri Paesi come l’America: noi ci batteremo per Mario Draghi come candidato perché pensiamo che sia molto ben qualificato. Poi vorremmo abolire il veto al Consiglio dei ministri: ad esempio in questo momento vediamo che Viktor Orbán sta imponendo un veto contro gli aiuti per l’Ucraina e noi non siamo d’accordo. Il terzo obiettivo è dare al Parlamento europeo il diritto di iniziativa, ovvero il diritto di proporre come tutti i parlamenti, che ora giuridicamente non ha.
Lei è Co-fondatore del Climate Parliament ed ha anche un incarico nella federazione europea ciclisti e nella World cycling alliance. Si è sempre contraddistinto per la sua attenzione all’ambiente, ma come si può giungere davvero alla realizzazione di un’Europa green?
Tre sono le cose che mi fanno scorrere il sangue nelle vene in politica: costruire l’Europa, combattere la discriminazione e attuare una politica dell’ecologia. Il Climate Parliament è una rete di parlamentari in tutto il mondo che lavora insieme per migliorare le condizioni del pianeta. Io dal 2015 non ne faccio più parte perché non sono più deputato, ma sin dall’inizio ha promosso il passaggio dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili. Durante queste elezioni mi piacerebbe parlare della minaccia terribile per il futuro del pianeta: nelle scorse settimane il Nord-Est Italia è stato colpito da fenomeni metereologici anomali e la loro intensità ci suggerisce che siano legati al cambiamento climatico. Il problema è che nessuno vuole parlarne perché ci sono due guerre, una in Medio Oriente e l’altra in Ucraina, quindi ci si focalizza su un’Europa capace di sviluppare una politica di difesa. In realtà ogni giorno che passa siamo sempre di più nei guai e io sono molto preoccupato, non tanto per me, perché ho già più di sessant’anni, ma per i miei figli e per i miei futuri nipoti. Questa è la sfida più grande, non solo per l’Europa, ma per l’essere umano.
Lei da tre anni è professore all’università di Toronto nella Munk School of Global Affairs and Public Policy. Come docente universitario, cosa ha appreso dalle giovani generazione e dalla loro visione del mondo?
Innanzitutto, non avrei mai pensato di poter insegnare per via del mio carattere, però poi ho scoperto una grande passione. L’anno scorso sono stato anche votato come professore migliore della scuola. La cosa che mi piace veramente dell’insegnamento è dover rinnovare sempre il mio pensiero davanti alle domande dei miei giovani studenti. Domande che io non mi sarei mai posto e che non solo mi fanno ragionare, ma anche stupire delle capacità del cervello umano, per dirlo in inglese della meditation of the brain.
Lei è scozzese, ma ha anche la cittadinanza italiana. Spesso si parla di shock culturale quando si passa da una nazione all’altra. Lei ne ha avuto uno?
Sono sposato da trentasette anni con un’italiana, dunque l’Italia è la mia seconda patria e i nostri figli sono più italiani che britannici. Tutto è iniziato in Scozia: da giovane ho organizzato un campo estivo per la gioventù liberale di tutta l’Europa e lì ho incontrato una ragazza fiorentina. Dopo cinque anni insieme ci siamo sposati e abbiamo avuto due figli.
Qui non ho imparato solo tradizioni culturali differenti, ma ho anche capito che il pensiero varia in base alla lingua, perché l’espressione in generale si pensa nel quadro linguistico. Ogni tanto ci sono cose che non si traducono bene e in cui il concetto è un po’ diverso, ciò riflette il modo di pensare con delle sottigliezze interessanti. In Italia ho trovato anche una percezione del tempo per me atipica: io sono nato in un’isola nella costa ovest della Scozia e lì se qualcuno ti dice “Domani” non vuol dire necessariamente domani, forse vuol dire la settimana prossima o anche il mese prossimo. La vita dalle mie parti ha un ritmo più lento.