Il sorriso orgoglioso, gli occhi ancora brillano nel ricordare la vittoria di metà marzo, decisiva per la qualificazione. Alle Olimpiadi di Parigi, l’Italia di sciabola potrà contare sulle stoccate di Luca Curatoli, che del team azzurro è ormai una colonna. Napoletano, cresciuto nel circolo Posillipo, torna sulle pedane più ambite forte dell’argento a squadre all’edizione di Tokyo 2020: «Fu un’esperienza strana, perché non c’era il pubblico a causa delle restrizioni Covid – ci dice collegato in videochiamata – stavolta sono già finiti i biglietti, il Grand Palais sarà stracolmo. Se sono in giornata, posso fare una grande gara».
Anche quando la pressione si fa sentire, Luca riesce a nasconderla sotto un’espressione distesa. Con l’ansia ha imparato a fare i conti fin da bambino, quando guardava le imprese dei fratelli, entrambi sciabolatori. Raffaello ha vinto il bronzo a squadre ad Atlanta 1996, Leonardo è suo storico maestro.
La scherma per Curatoli è il ricordo di un pomeriggio di metà settembre 2000. A sei anni, in vacanza con la famiglia a Roccaraso, sulle montagne abruzzesi, fa il tifo davanti alla tv per Raffy, in gara ai Giochi di Sydney: «Urlavo nella speranza che mi sentisse. Durante i pranzi con i parenti mi divertivo a simulare la mia premiazione: la sedia era il podio su cui salivo per ricevere la medaglia. I miei genitori mi avvertivano: “Non è detto che arriverai alle Olimpiadi. Tuo fratello ha fatto un’impresa”. Invece ci sono ci sono riuscito». L’argento a squadre conquistato a Tokyo è la chiusura di un cerchio che Luca aveva aperto sei anni prima, vincendo con l’Italia i mondiali di sciabola a Mosca. L’ultima nazionale a riuscirci, nel 1995, era stata proprio quella di Raffaello.
Il carattere esuberante, prima ancora della tradizione familiare, lo ha avvicinato alla sciabola, che fra le tre discipline della scherma è quella più dinamica. A differenza di fioretto e spada, la lama dell’arma è tutta elettrica, basta sfiorare l’avversario per primi per far punto. Si può colpire di punta, taglio e controtaglio, dalla cinta in su, braccia e testa comprese. «È uno sport che comporta un movimento molto rapido – ci dice Luca – la preparazione atletica è paragonabile a quella per i cento metri: un impulso molto forte a breve termine». In un attimo si deve decidere la stoccata e prevedere quella dello sfidante. «Un assalto dura al massimo dieci minuti, ma a me sembra sempre un’eternità!» ci confida lo schermidore napoletano. Sulla pedana il tempo si dilata, una minima distrazione può indirizzare la sfida, è un grande sforzo mentale oltre che fisico. «Ma quando abbasso la maschera, tutte le tensioni spariscono», continua «sono consapevole del lavoro che ho fatto e ciò mi rende molto spavaldo».
Sicuro di sé, grintoso e votato all’attacco anche nelle sfide fuori dalla pedana. Mancano solo tre esami per diventare dottore in Giurisprudenza all’università Luiss di Roma. Un percorso parallelo a quello sportivo, che aiuta Luca a scaricare la tensione prima e dopo ogni allenamento. «Non è un caso se le gare andate meglio sono combaciate con un periodo di studio intenso. Due strade che non si incontrano, ma con lo stesso obiettivo. In fondo, l’esame è come una gara, la laurea come un’Olimpiade».
L’avvicinamento della squadra azzurra a Parigi 2024 non è stato senza ostacoli. Due pilastri del gruppo hanno lasciato. Aldo Montano, il capitano, ormai quarantacinquenne, dopo cinque partecipazioni, seguirà i ragazzi dagli spalti, mentre Enrico Berrè, un grande amico di Luca, è stato fermato da un grave infortunio al ginocchio. Curatoli ne ha subito raccolto l’eredità, conquistando l’argento nella Coppa del mondo di Budapest, a fine marzo. I Giochi, però, sono diversi dalle altre competizioni. «La preparazione è meticolosa, la differenza la farannodettaglio e lucidità – continua l’atleta delle Fiamme Oro – spesso vanno bene gli outsider, quelli che non hanno nulla da perdere. Puoi arrivare da numero uno al mondo o da numero trenta, c’è una possibilità per tutti».
A livello individuale, Tokyo non ha regalato gioie, nonostante il terzo posto nel ranking internazionale. Stavolta, partire dalle retrovie potrebbe essere un vantaggio. E poi c’è la gara a squadre: «Vogliamo salire sul podio e cercare di migliorare l’ultimo risultato, anche se sarà difficile: sopra l’argento resta solo l’oro!». Nell’allenamento quotidiano conta tutto, le sedute in palestra, la dieta controllata e il riposo. A Napoli ogni giorno è una sfida, perché «non ci sono strutture all’avanguardia, ma questo è un mio punto di forza: non avere tutto a portata di mano e doverlo conquistare insegna la cultura del lavoro». Lo schermidore divide le sue giornate fra la palestra di Massa di Somma, alle porte del capoluogo partenopeo, e quella della scuola militare della Nunziatella: «Se fai quaranta minuti di macchina, sai che devi dare il 100%. È un aspetto che mi fa arrivare in pedana con più fame».
Nel racconto di Luca, la famiglia è una presenza costante. La classe dei fratelli non è mai stata un peso, i genitori lo hanno lasciato libero di scegliere la sua strada. Ventiquattro anni fa, fu la madre a portarlo al primo allenamento di scherma, dopo avergli fatto provare tutti gli sport nautici. Raffaello è il modello a cui guardare, Leonardo il maestro che lo segue fin dagli esordi. Il loro è un legame speciale, che si percepisce in gara. Sia dopo il colpo vincente sia in un momento di crisi, in cui è più difficile ribaltare la sfida, Luca si volta e cerca con gli occhi il sostegno di chi lo conosce meglio di chiunque altro.
Al quindicesimo punto, quello decisivo, la mente va a tutte le persone che hanno contribuito al successo. La vita di un’atleta è piena di rinunce, Luca non le vive come sacrifici, ma come passaggi per conquistare la gioia più grande: «Sono fortunato, ho reso la mia passione il lavoro della vita. Mi sento come il bambino che sogna di fare l’astronauta e poi riesce a farlo davvero».