Alle sei di mattina, davanti allo stabilimento di Stellantis di Pomigliano d’Arco a Napoli, più di quattrocento persone bloccano l’ingresso delle merci nella fabbrica. Sono i lavoratori di Trasnova, azienda che opera nel settore della logistica e dei trasporti. Il loro contratto scadrà fra meno di un mese, il 31 dicembre, e di rinnovi non se ne parla. Qualcuno fatica a parlare, preoccupato dopo le dimissioni del Ceo Carlos Tavares. Altri, invece, gridano con il megafono, sottolineando che «non molleranno». Lo fanno capire anche con le parole scritti sugli striscioni, che sono le stesse che vengono pronunciate dagli operai nel pomeriggio davanti alla sede di Mirafiori, in Piemonte, dove la produzione è stata interrotta fino al prossimo gennaio. Basta raccontare poche ore di una giornata di dicembre per disegnare la crisi che sta attraversando il settore dell’automotive. Sarebbe un errore, però, pensare che sia un caso soltanto italiano.
A più di millecinquecento chilometri a Nord, ad Hannover o a Wolfsburg, in Germania, la storia non cambia. Anzi, è anche peggio. Una marcia popola le strade delle città. Il rosso è il colore dominante, nei fischietti, nelle magliette e nelle sciarpe. La loro azienda, Volkswagen, non li ascolta, nonostante abbiano provato più volte a chiedere un confronto. Chiedono tagli meno netti ai salari e al personale, più rispetto per i lavoratori, che si ritengono le vittime nel piano di riduzione dei costi. Ma il gruppo automobilistico «non si muove di un millimetro».
Situazioni simili, che sta vivendo anche la Francia. Lo tratta come un tema europeo Gianmarco Giorda, il direttore generale di Anfia, l’Associazione nazionale filiera industria automobilistica, che studia e analizza i trend riguardanti le vendite del settore. Il punto di partenza è «la domanda di mercato in calo negli ultimi anni, mancano circa tre milioni e mezzo di veicoli» racconta Giorda. Le eccezioni sono poche, «come la Spagna che riesce a salvarsi per il numero alto di aziende».
C’è anche da considerare che la «transizione all’elettrico non sta andando bene». Oggi, del totale delle immatricolazioni, se ne vende circa il 16%. Una percentuale che aumenta di anno in anno (nel 2020 era il 6,2%), ma che rimane bassa per gli standard voluti dall’Unione Europea, che nel marzo del 2023 ha votato per fermare la vendita dei veicoli a motore a combustione dal 2035. Così hanno pagato anche chi lavorava negli stabilimenti di auto elettriche, come quelli di Bruxelles. Lì, Audi ha prodotto un quarto dei veicoli previsti e non è comunque riuscito a venderli tutti. Il risultato è che la sede chiuderà a fine febbraio del 2025.
E poi c’è la concorrenza della Cina, che «crea incertezza e preoccupazione perché vende mezzi competitivi a prezzi più bassi». Non soltanto auto, ma anche la componentistica: « i Paesi europei, compresa l’Italia, attingono ai loro pezzi per risparmiare, dato che devono tagliare il più possibile i costi». In Europa pagano i lavoratori delle aziende affiliate, come quelli della francese Michelin o della tedesca Schaeffler: in totale verranno licenziati quasi seimila lavoratori.
Da un lato i «paletti stringenti dell’Ue», che costringono a suon di sanzioni le imprese a puntare sull’elettrico, dall’altro una domanda debole e una concorrenza forte dall’Asia danno vita a un bilancio sempre più rosso. Lo è sia per la produzione sia per le immatricolazioni. Nel 2015 si costruivano diciotto milioni di auto, nove anni dopo sono quattro milioni in meno, un calo del 22%. Di queste, quelle che vengono registrate sono circa dieci milioni, un numero superiore rispetto a quello del 2023 (+5%), ma distante dai dati pre-pandemici, dato che nel 2019 erano circa quindici milioni le auto immatricolate. «L’unica possibilità – conclude Giorda – è che si rivedano le normative. L’elettrico è il futuro ma devono essere concesse alternative come i biocarburanti. Insomma, serve una pluralità di tecnologie per i prossimi anni».
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